Malattia probabilmente derivata dall’esposizione all’amianto, datore risarcisce

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Malattia probabilmente derivata dall’esposizione all’amianto, datore risarcisce

La Corte di cassazione ha confermato la statuizione con cui i giudici di merito avevano condannato un’azienda al risarcimento dei danni sofferti dagli eredi di un lavoratore, iure proprio e iure hereditario, in considerazione della natura professionale della malattia che aveva causato il decesso del loro congiunto.

Uso dell’amianto e mancata adozione di misure di sicurezza

Secondo i giudici di merito era da ritenere accertato l'uso diffuso e costante, nel periodo di riferimento in cui il lavoratore era alle dipendenze della società (1967-1994), di materiali contenenti amianto.

La Ctu esperita nell’ambito del giudizio aveva inoltre evidenziato che la inalazione di fibre di amianto e la esposizione ad idrocarburi policiclici aromatici, presenti nel ciclo di produzione dell’impresa, aveva sicuramente contribuito al precoce sviluppo della neoplasia che aveva causato il decesso del lavoratore, pur essendosi valutato anche l'effetto nocivo dell'abitudine al fumo di sigaretta.

Inoltre, era emerso che non era stata adottata alcuna specifica misura di sicurezza rispetto alla esposizione agli agenti nocivi, se non l'impego di mascherine di carta alla fine degli anni 70, questo nonostante la pericolosità dell'amianto fosse stata recepita ancor prima sicché non era invocabile la previsione dell'articolo 1225 del Codice civile sulla prevedibilità del danno.

Il ricorso del datore di lavoro

La parte datrice di lavoro aveva, quindi, mosso ricorso in Cassazione contro la decisione di merito lamentando, tra gli altri motivi, che il giudizio per affermare la propria colpevolezza avrebbe richiesto la conoscibilità al momento dei fatti sia dell'evento di danno sia delle misure di sicurezza attuabili per prevenirlo.

A suo dire, da un lato, la consapevolezza della nocività dell'amianto derivava da conoscenze scientifiche acquisite solo in epoca molto successiva ai fatti; dall’altro, poteva affermarsi una responsabilità solo qualora l’attuazione della cautele disponibili all'epoca dei fatti avrebbe ridotto significativamente la probabilità di contrarre la malattia.

La decisione della Cassazione

Assunti a cui non ha aderito la Suprema corte – sentenza n. 19270 del 2 agosto 2017 - la quale ha sottolineato come la colpevolezza atteneva, in realtà, al giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell'evento in ragione delle conoscenze di un imprenditore di media diligenza del settore, comparabile alla ricorrente, per tipo di organizzazione produttiva.

Era quindi congruamente motivata la statuizione di merito nella quale era stato evidenziato:

  • che la pericolosità dell'amianto era nota fin dai primi anni novanta;
  • che era, comunque, noto il rischio derivante dalla formazione e diffusione delle polveri, come evincibile dalle previsioni contenute nell'articolo 15 del DPR n. 303/1956;
  • che, peraltro, il rischio specifico derivante dall'amianto risultava legislativamente recepito dal DPR n. 1124/1965.

Del resto – viene ricordato dalla Cassazione - anche la costante giurisprudenza di legittimità, in fattispecie analoghe, aveva individuato negli stessi sensi il contenuto degli obblighi e delle responsabilità datoriali.

Difatti “il giudizio di prevedibilità ed evitabilità va riferito non allo specifico tipo di neoplasia in concreto manifestatosi— il che rapporterebbe la colpa ad un criterio scientifico che è proprio del diverso giudizio di causalità— ma al generico verificarsi di un danno alla salute del lavoratore, essendo questo l'evento che l'articolo 2087 del Codice civile ed il DPR 303/1956 mirano a prevenire”.

Manca un’assoluta certezza circa la derivazione causale? Preponderanza dell’evidenza

Nel testo della medesima decisione è stato poi ribadito il principio di diritto secondo cui, nel caso in cui le leggi scientifiche non consentano una assoluta certezza della derivazione causale, la regola di giudizio nel processo civile è quella della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”, criterio che non può essere ancorato esclusivamente alla determinazione quantitativa “ma va verificato riconducendone il grado di fondatezza all’ambito degli elementi di conferma disponibili in relazione al caso concreto”.

E per gli Ermellini, la sentenza impugnata si era conformata all'indicato principio, mentre l’accertamento operato dalla Corte territoriale - da un lato circa la presenza nell'ambiente di lavoro di due agenti patogeni dell'amianto e degli idrocarburi policlicici aromatici e, dall'altro, quanto alla ricorrenza del rapporto causale con la malattia manifestatasi - atteneva alla ricostruzione del fatto storico rimessa al giudice del merito, censurabile in sede di legittimità unicamente nei limiti di cui all'articolo 360 n. 5 del Codice di procedura civile.

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