Processo tributario: divieto di nuove prove in appello non per i giudizi pendenti
Pubblicato il 28 marzo 2025
In questo articolo:
- Processo tributario: la Consulta sulla nuova disciplina delle prove in appello
- Le questioni di legittimità costituzionale sollevate
- La decisione della Corte costituzionale
- Deleghe e procure fuori dal divieto assoluto
- Confermato il divieto di prova della notifica in appello
- Divieto di nuove prove in appello: la Consulta salva i giudizi pendenti
- Tabella di sintesi della decisione
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Va esclusa l’applicabilità immediata delle nuove regole del processo tributario sulle prove in appello ai giudizi instaurati in secondo grado a far data dal 5 gennaio 2024.
E' inoltre incostituzionale il divieto di deposito in appello di deleghe, procure e altri atti di conferimento di potere rilevanti per la legittimità della sottoscrizione degli atti.
Nessuna incostituzionalità, invece, per il divieto assoluto di produzione in appello delle notifiche degli atti impugnati o presupposti.
Processo tributario: la Consulta sulla nuova disciplina delle prove in appello
Con la sentenza n. 36 del 27 marzo 2025, la Corte Costituzionale si è pronunciata in tema di contenzioso tributario e, in particolare, in merito alla legittimità della nuova disciplina delle prove in appello.
Al vaglio della Consulta era stata rimessa la legittimità costituzionale di alcune disposizioni introdotte dal Decreto legislativo n. 220/2023 (Disposizioni in materia di contenzioso tributario).
L’intervento normativo in esame - si rammenta - è inserito nell’ambito della più ampia riforma del processo tributario, disposta dalla Legge delega n. 111/2023, e attuata con il menzionato Decreto legislativo n. 220/2023, nell’ottica della riduzione del contenzioso, della semplificazione delle procedure e della razionalizzazione dei tempi processuali, in coerenza con gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Le questioni di legittimità costituzionale sollevate
Le questioni sottoposte alla Corte costituzionale sono state sollevate da due diverse Corti di giustizia tributaria di secondo grado: la sezione della Campania e la sezione della Lombardia.
Entrambe le ordinanze di rimessione hanno sollevato dubbi sull’articolo 58, comma 3, del Decreto legislativo n. 546/1992, per come modificato dalla novella del 2023, in riferimento agli articoli 3, 24, 76, 102 e 111 della Costituzione.
La disposizione censurata introduce un divieto assoluto di deposito, nel giudizio di appello, di talune categorie di documenti, tra cui le deleghe, le procure e gli atti di conferimento di potere, nonché le notifiche dell’atto impugnato e degli atti che ne costituiscono presupposto.
In particolare, si è contestata la compatibilità costituzionale del divieto assoluto di produrre in appello determinati documenti, anche qualora questi risultino indispensabili ai fini della decisione o la parte dimostri di non aver potuto produrli in primo grado per causa ad essa non imputabile.
In aggiunta, la CGT Lombardia ha censurato anche l’articolo 4, comma 2, del Decreto legislativo n. 220/2023, nella parte in cui ha reso immediatamente applicabile la nuova disciplina anche ai giudizi di appello relativi a processi introdotti in primo grado sotto la vigenza della normativa previgente.
Secondo la Corte rimettente, tale disposizione risulterebbe lesiva del principio di affidamento, in quanto priva le parti della possibilità di adeguarsi consapevolmente al nuovo regime normativo.
La decisione della Corte costituzionale
Deleghe e procure fuori dal divieto assoluto
Con riguardo all’articolo 58, comma 3, del Decreto legislativo n. 546/1992, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui viene precluso il deposito in appello di deleghe, procure e atti di conferimento di potere rilevanti ai fini della legittimità della sottoscrizione degli atti.
Secondo la Corte, tale divieto si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza, di parità delle armi tra le parti e di effettività del diritto alla prova, riconosciuti rispettivamente dagli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione.
La Corte costituzionale, nella propria disamina, ha ricordato che la disciplina introdotta con la riforma ha adottato un modello di appello caratterizzato da un’istruttoria tendenzialmente chiusa. Tale modello è tuttavia mitigato dalla previsione che consente alle parti di introdurre nuove prove in appello, qualora risultino indispensabili ai fini della decisione o non siano state prodotte in primo grado per causa non imputabile.
In tale contesto normativo, la previsione di un divieto assoluto riferito alle deleghe, alle procure e agli altri atti di conferimento di potere si rivela priva di una giustificazione razionale.
Secondo la Corte, infatti, la sottrazione di questi atti alla disciplina generale non è sorretta da alcuna specificità oggettiva, né sul piano strutturale, né su quello funzionale o degli effetti. Non si riscontra, dunque, alcun elemento distintivo che legittimi l’adozione di un regime differenziato rispetto agli altri documenti probatori.
Al contrario, tali atti rientrano pienamente nella categoria delle prove documentali, alle quali l’articolo 58, comma 1, consente l’introduzione in appello al ricorrere dei presupposti normativi.
A differenza delle notificazioni degli atti impugnati o di quelli presupposti, le deleghe e le procure non presentano caratteristiche tali da incidere sulla struttura del sistema delle preclusioni istruttorie in secondo grado, né da giustificare una disciplina di maggior rigore.
Confermato il divieto di prova della notifica in appello
Diversa è stata la valutazione della Corte in merito alla parte dell’articolo 58, comma 3, che vieta la produzione in appello delle notifiche dell’atto impugnato e degli atti che ne costituiscono presupposto.
Secondo la Corte costituzionale, tale divieto trova una giustificazione adeguata nella specificità della funzione che le notificazioni rivestono nel processo tributario.
In particolare, trattandosi di documenti necessari a comprovare la validità o l’efficacia degli atti impositivi, l’onere della loro produzione grava sull’amministrazione sin dal primo grado di giudizio.
La Corte ha evidenziato che il divieto è coerente con l’obiettivo di evitare una dilatazione artificiosa dei tempi processuali e di prevenire comportamenti difensivi strumentali o negligenti, in linea con i principi di concentrazione e autoresponsabilità.
La stessa Consulta ha inoltre precisato che, nella specie, non si è in presenza di una lesione del diritto alla prova, in quanto le notificazioni, per loro natura, devono essere conosciute e disponibili all’amministrazione sin dal momento in cui essa agisce in giudizio.
Divieto di nuove prove in appello: la Consulta salva i giudizi pendenti
La Corte costituzionale, per finire, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 2, del Decreto legislativo n. 220/2023, nella parte in cui estende l’applicazione della nuova disciplina alle impugnazioni relative a cause instaurate in primo grado prima dell’entrata in vigore del decreto stesso (4 gennaio 2024).
La Corte, in particolare, ha ritenuto fondate le censure sollevate in riferimento agli articoli 3 e 111 della Costituzione, evidenziando la violazione del principio del giusto processo, in quanto compromessa la prevedibilità delle regole processuali applicabili lungo l’intero iter di tutela, nonché il pregiudizio arrecato alle scelte difensive delle parti che avevano già instaurato il giudizio di primo grado prima dell’entrata in vigore della nuova disciplina.
Tale previsione, in altri termini, è stata ritenuta irragionevole e lesiva del giusto processo nella sua dimensione di prevedibilità delle regole procedurali applicabili, con conseguente compromissione del legittimo affidamento delle parti.
Per la Corte, infatti, "lo ius superveniens, sebbene formalmente operi per il futuro, nella sostanza incide sugli effetti giuridici di situazioni processuali verificatesi nei giudizi iniziati nel vigore della precedente normativa e ancora in corso".
In tal modo, la nuova disciplina finisce per rivalutare retroattivamente la mancata produzione di documenti nel giudizio di primo grado, sanzionandola nonostante il fatto che, secondo la normativa allora vigente, tale produzione fosse legittimamente differibile all’appello.
Ciò in contrasto con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, che ammetteva la produzione di nuovi documenti in appello, con l’unica eccezione rappresentata da quelli diretti a sostenere domande o eccezioni non più proponibili.
Va quindi esclusa, secondo la Corte, l’applicabilità immediata della nuova disciplina ai giudizi di appello incardinati dopo l’entrata in vigore della riforma, ma aventi ad oggetto controversie iniziate in primo grado sotto la precedente normativa.
L’art. 4, comma 2, è stato pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prescrive che le nuove disposizioni si applicano ai giudizi instaurati in secondo grado a decorrere dal giorno successivo all'entrata in vigore del decreto, anziché ai giudizi di appello il cui primo grado sia instaurato successivamente.
Tabella di sintesi della decisione
Sintesi del caso | Questione dibattuta | Soluzione della Corte costituzionale |
---|---|---|
Due Corti di giustizia tributaria di secondo grado (Campania e Lombardia) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale sull’art. 58, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992, come modificato dal d.lgs. n. 220/2023, che vieta in modo assoluto il deposito in appello di alcune categorie di documenti, e sull’art. 4, comma 2, dello stesso d.lgs. n. 220/2023. | 1. Legittimità del divieto assoluto di produrre in appello: (a) le deleghe, procure e atti di conferimento di potere, (b) le notifiche degli atti impugnati o presupposti. 2. Legittimità dell’applicazione immediata della nuova disciplina anche ai giudizi d’appello relativi a cause iniziate in primo grado sotto la previgente normativa. |
1. Illegittimo il divieto assoluto di produrre in appello deleghe, procure e atti di conferimento di potere (violazione artt. 3, 24 e 111 Cost.). 2. Legittimo il divieto assoluto di produrre in appello le notifiche degli atti impugnati o presupposti (valido per finalità deflattive e coerenza con il principio di autoresponsabilità). 3. Illegittima l’applicazione immediata del nuovo regime alle impugnazioni di giudizi già iniziati in primo grado (violazione dei principi di affidamento e prevedibilità del processo ex artt. 3 e 111 Cost.). |
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