Pause prolungate e non autorizzate giustificano il licenziamento

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Pause prolungate e non autorizzate giustificano il licenziamento

Legittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che abusa delle pause lavorative: sanzione disciplinare proporzionata. Le assenze prolungate sono idonee a ledere l'immagine aziendale e a compromettere il rapporto di fiducia col datore di lavoro.

Troppe pause al bar coi colleghi: licenziamento legittimo

Con ordinanza n. 27610 del 24 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione lavoro, si è occupata di un caso di licenziamento disciplinare, giudicato proporzionato e legittimo dalla Corte d'Appello, nonostante le contestazioni del dipendente.

Le indagini e la decisione di primo grado

Il ricorrente aveva infatti opposto ricorso contro il provvedimento, sostenendo che fosse animato da intenti ritorsivi e che risultasse privo della necessaria proporzionalità.

La società datrice di lavoro aveva deciso di licenziare il dipendente, il quale occupava una posizione di responsabilità, a seguito di indagini private che avevano rivelato assenze dal lavoro per periodi prolungati e non autorizzati.

Da quanto risultava, il lavoratore aveva reiteratamente abusato delle pause lavorative, trascorrendo tempi eccessivi al bar con i colleghi.

Tali comportamenti, per la società, erano lesivi dell'immagine aziendale e del rispetto degli obblighi contrattuali.

In primo grado, il Tribunale aveva ritenuto il licenziamento per giusta causa illegittimo, giudicando la sanzione sproporzionata rispetto alla condotta, ma in appello la decisione era stata ribaltata, con la Corte territoriale che aveva confermato la congruità della sanzione.

Corte d'appello: possibile truffa e lesione del vincolo fiduciario

La Corte d'appello, in particolare, aveva considerato che il comportamento del dipendente avrebbe potuto assumere rilevanza anche penale, potendo potenzialmente configurare il reato di truffa.

Il dipendente, infatti, si era assentato in modo reiterato e arbitrario dal lavoro, decidendo autonomamente pause non autorizzate e, successivamente, attestando falsamente nei fogli di servizio il pieno rispetto dell'orario lavorativo concordato.

Tale comportamento aveva generato un'indebita percezione di salario per ore non lavorate, con conseguente danno economico per l'azienda.

Anche prescindendo dalla configurabilità del reato di truffa, la Corte di gravame aveva sottolineato come la condotta del lavoratore, essendo ingannevole e sistematica, fosse comunque idonea a raggirare il datore di lavoro che faceva affidamento sul corretto svolgimento della prestazione.

Di conseguenza, tale comportamento aveva leso irrimediabilmente il rapporto di fiducia tra le parti, giustificando, pertanto, il licenziamento.

Il ricorso in Cassazione: i motivi di impugnazione

In sede di legittimità, il lavoratore aveva ripresentato le proprie doglianze, articolando dieci motivi di ricorso, fra i quali la decorrenza errata del termine per esercitare il potere disciplinare, l'illegittimità delle indagini eseguite tramite un'agenzia privata, l'affermazione di intenti discriminatori o ritorsivi come causa del licenziamento e l'asserita mancanza di proporzionalità della sanzione.

La decisione della Corte di cassazione

La Corte di cassazione, tuttavia, ha confermato integralmente la decisione della Corte d'Appello.

In merito alla tempistica del licenziamento, la Suprema corte ha ritenuto che esso fosse stato emesso entro i termini contrattuali, stabilendo che il termine decorresse dalla data in cui si era conclusa l'audizione orale del lavoratore.

La Sezione lavoro della Cassazione ha inoltre convalidato la legittimità dell'uso di un'agenzia investigativa, considerandolo un mezzo giustificato per accertare violazioni degli obblighi contrattuali e la lesione dell'immagine aziendale, tenuto conto anche del fatto che i comportamenti sospetti avevano una potenziale rilevanza penale.

Rispetto alla presunta discriminazione, la Cassazione ha respinto tale doglianza, affermando che mancasse ogni prova in merito, e confermando che il giudizio di appello aveva sufficientemente motivato il nesso tra il comportamento sanzionato e la sanzione stessa, giudicando insussistente qualsiasi intento ritorsivo.

Infine, la Corte di legittimità ha ribadito la proporzionalità della sanzione disciplinare del licenziamento: la condotta tenuta era stata considerata di gravità tale da ledere non solo il patrimonio aziendale, ma anche l'immagine dell'impresa, legittimando dunque la rottura del vincolo fiduciario.

Le conclusioni della Cassazione

In conclusione, la Cassazione ha integralmente rigettato il ricorso del dipendente, riconoscendo la fondatezza del licenziamento e confermando la condanna del medesimo al pagamento delle spese processuali.

Tabella di sintesi della decisione

Sintesi del caso Un lavoratore con ruolo di responsabilità viene licenziato per motivi disciplinari dalla sua azienda, che ha documentato tramite indagini private le sue frequenti e prolungate assenze non autorizzate. La società ha considerato tale comportamento lesivo per la propria immagine e non conforme agli obblighi contrattuali.
Questione dibattuta Il lavoratore ha impugnato il licenziamento, sostenendo che fosse ritorsivo e sproporzionato rispetto alla condotta. Ha contestato anche la legittimità delle indagini private, l'errata decorrenza del termine per l'esercizio del potere disciplinare e la mancanza di proporzionalità della sanzione.
Soluzione della Corte di Cassazione La Cassazione ha confermato la decisione della Corte d'Appello, stabilendo che il licenziamento fosse proporzionato e legittimo. Ha ritenuto tempestivo il provvedimento e ha validato l'uso di indagini investigative, considerandole idonee a rilevare condotte potenzialmente penalmente rilevanti e dannose per l'immagine aziendale. Ha inoltre respinto le accuse di discriminazione e ritorsione, ritenendo che la condotta del lavoratore fosse sufficiente a recidere il vincolo fiduciario.
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