Corte Ue Rapporti madre-figlia senza obbligo di dimostrazione
Pubblicato il 08 settembre 2017
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La Corte di giustizia UE, con la sentenza del 7 settembre 2017 relativa alla causa C-6/16 (Equim Sas ed Enka Sa), è intervenuta sui rapporti madre-figlia e sulla libertà di stabilimento, analizzando la compatibilità della normativa tributaria francese, che ha appunto recepito la direttiva madre-figlia (direttiva 90/435/Cee, come modificata dalla direttiva 2003/123/Ce) con il principio della libertà di stabilimento, sancito dai Trattati Ue
Direttiva Ue sui rapporti madre-figlia
La Corte parte dall'analizzare la direttiva europea sulle società madri e figlie che, di fatto, tende ad assicurare la neutralità fiscale della distribuzione di utili da parte di una società Ue alla sua società madre stabilita in altro Stato membro. Inoltre, la stessa direttiva sancisce il divieto delle ritenute alle fonte sugli utili distribuiti, impedendo agli Stati membri di istituire unilateralmente provvedimenti restrittivi e subordinare a condizioni tale esenzione, con unica eccezione quella riguardante l’applicazione di disposizioni necessarie al fine di evitare frodi ed abusi.
Alla luce di quanto detto, una normativa nazionale restrittiva si può ritenere compatibile con la suddetta direttiva europea solo nel caso in cui abbia come scopo specifico quello di ostacolare costruzioni puramente artificiose e prive di effettività economica.
Viceversa, una normativa nazionale che escluda a priori agevolazioni fiscali per alcune categorie di contribuenti – senza onere di prova a carico del Fisco – risulterebbe più del dovuto favorevole ad evitare frodi ed abusi. Ciò anche nel caso in cui la società madre sia controllata da uno o più soggetti residenti in Stati terzi, dal momento che la direttiva non prevede che l’origine degli azionisti delle società Ue possa incidere sul diritto delle stesse società di avvalersi del regime di esenzione. Anzi, una eventuale restrizione di tal genere costituirebbe una limitazione alla libertà di stabilimento che non giustifica l’obiettivo di limitare la frode o l’evasione fiscale.
Di qui la conclusione della sentenza del 7 settembre, secondo cui è contraria alla direttiva europea una normativa nazionale che subordina l’applicazione della direttiva madre-figlia alla dimostrazione che la partecipazione tra le due società non sia finalizzata all'ottenimento di un indebito vantaggio fiscale.
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