Cooperative e trattamenti retributivi: uno sguardo al salario minimo legale previsto dal Jobs Act
Pubblicato il 07 maggio 2015
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Con sentenza n. 51/2015, la Corte Costituzionale ha dichiarato legittimo l’art. 7, comma 4, del D.L. n. 248/2007, conv. in L. n. 31/2008, nella parte in cui stabilisce che al socio lavoratore subordinato si applicano i minimi retributivi previsti dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. La sentenza, subito posta in risalto dal Ministero del Lavoro con circolare n. 7068/2015 (e che è reperibile in massima anche nelle rubrica “Edicola”, www.edotto.com, del 29/04/2015), offre un interessante spunto di riflessione in relazione alle novità che potranno essere introdotte dal “Jobs Act” in materia di salario minimo legale previsto dall’art. 1, comma 7, lett. g), L. n. 183/2014.
I Giudici costituzionali sono stati chiamati a valutare se fosse lesivo del principio della libertà sindacale l’art. 7, comma 4, del D.L. n. 248 cit., atteso che quest’ultimo, in presenza di una pluralità di contratti collettivi della medesima categoria, imporrebbe alla parte datoriale di applicare i trattamenti economici non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. Si trattava, in sostanza, di stabilire se tale norma assegnasse o meno a quest’ultima contrattazione valore erga omnes, in contrasto con il principio di cui all’art. 39 Cost..
A seguito della soppressione dell’ordinamento corporativo, infatti, il contratto collettivo è rientrato nella sfera dell’autonomia privata e la sua efficacia è circoscritta ai soli aderenti alle organizzazioni sindacali stipulanti, le quali possono redigere pattuizioni valide erga omnes solo nel rispetto della procedura di cui all’art. 39 Cost..
Tale norma, come noto, non è stata attuata e il contratto collettivo previsto da questa disposizione è rimasto puramente teorico.
La conseguenza è che la contrattazione collettiva resta soggetta alla regole del diritto comune, nel senso che la stessa ha efficacia vincolante limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti e a coloro che, esplicitamente o implicitamente, al contratto abbiamo prestato adesione (cfr. anche recentemente Cass. civ. Sez. lavoro, 18/12/2014, n. 26742).
Tuttavia, l’esigenza di dare applicazione ai contratti collettivi oltre lo stretto ambito degli iscritti alle associazioni stipulanti è comunemente avvertita, specie in punto di retribuzione, e ciò al fine di garantire che la parte datoriale, anche ove non aderisca ad organizzazioni firmatarie, applichi comunque ai dipendenti trattamenti retributivi rispettosi dei canoni della proporzionalità e della sufficienza sanciti dall’art. 36 Cost..
A tal fine, l’estensione soggettiva dei contratti collettivi viene realizzata dalla prevalente giurisprudenza per effetto del combinato disposto degli artt. 36 Cost. e 2099 c.c.. Quest’ultima disposizione stabilisce che in mancanza di norme corporative, quindi di contratto collettivo, la retribuzione è determinata dal giudice. All’uopo, costui deve rispettare i canoni della proporzionalità e della sufficienza stabiliti dall’art. 36 Cost., che in tal senso assume una valenza immediatamente precettiva.
In tale opera valutativa, la giurisprudenza ritiene che il punto di riferimento che garantisce l’attuazione del precetto costituzionale sia dato proprio dalle clausole retributive dei contratti collettivi di diritto comune.
In sostanza, nei contratti collettivi la giurisprudenza vede il più sicuro parametro di riferimento per stabilire se la retribuzione, concretamente percepita dal lavoratore, sia sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost., quindi per individuare la retribuzione dovuta dal datore di lavoro (cfr. tra le tante Cass. civ. Sez. lavoro Sent., 07/07/2008, n. 18584). È anche vero che la stessa giurisprudenza ha previsto deroghe a questa regola, consentendo al giudice, con adeguata motivazione, di discostarsi dalle disposizioni dei CCNL in relazione a condizioni locali del mercato del lavoro e del costo della vita, alle retribuzioni praticate nella zona, alle dimensioni delle imprese o al suo carattere artigianale o per conto terzi (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, Sent. 28-10-2008, n. 25889).
Alla luce di tali premesse e di quanto affermato dalla sentenza della Corte di legittimità, si può desumere che le cooperative restano libere di scegliere se applicare o meno un contratto collettivo ed eventualmente quale tipologia di contratto applicare. Resta fermo che una disomogeneità contrattuale rispetto al settore merceologico in cui opera la cooperativa, per un verso non incide sulla determinazione del minimale contributivo come disciplinato dall’art. 1 del D.L. 9 ottobre 1989 n. 338, conv. nella legge 7 dicembre 1989 n. 389, successivamente confermata dall’art. 6, ottavo comma, del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 e preclude al tempo stesso la fruizione delle agevolazioni riconosciute in base all’art. 36 della L. n. 300/70. Per altro verso, tale disomogeneità consente comunque al lavoratore di richiamare la disciplina prevista dal contratto collettivo, appartenente al settore merceologico in cui opera la parte datoriale, come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione ex art. 36 Cost., deducendo la non conformità al precetto costituzionale del trattamento economico previsto nel contratto applicato (Cass. civ., Sez. lavoro, 18/12/2014, n. 26742).
Segnatamente e per quel che riguarda l’ambito in cui operano le cooperative, la libertà di scelta sul contratto collettivo applicabile non può spingersi sino al punto di erogare ai soci lavoratori, secondo la stretta lettera normativa di cui all’art. 7 del D.L. n. 248 cit., “trattamenti economici” diversi e inferiori a quelli stabiliti “dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria”.
Laddove, infatti, le cooperative eroghino ai soci lavoratori trattamenti economici inferiori a quelli previsti dai contratti stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria, il Ministero del Lavoro ha richiamato il personale ispettivo ad adottare in favore dei soci lavoratori i provvedimenti di diffida accertativa per un importo pari alle differenze retributive accertate (cfr. circolari del Ministero del lavoro 9 novembre 2010 e 6 marzo 2012).
La rappresentatività dell’organizzazione (i cui indici, come noto, sono dati dal numero complessivo delle imprese associate; dal numero complessivo dei lavoratori occupati; dal numero di sedi presenti sul territorio; dagli ambiti settoriali di operatività; dal numero dei contratti collettivi nazionali stipulati e vigenti) è stata ritenuta dalla Corte la componente che, “meglio di altre, recepisce l’andamento delle dinamiche retributive nei settori in cui operano le società cooperative”. Sicché, i Giudici di legittimità ritengono che proprio i trattamenti retributivi previsti dai contratti sottoscritti dalle predette organizzazioni riescano a “contrastare forme di competizione salariale al ribasso, in linea con l’indirizzo giurisprudenziale che, da tempo, ritiene conforme ai requisiti della proporzionalità e della sufficienza la retribuzione concordata nei contratti collettivi di lavoro firmati da associazioni comparativamente più rappresentative”.
Si tratterà allora di verificare se e come il principio affermato dalla Corte Costituzionale verrà recepito dal Legislatore delegato, tenuto a emanare i decreti attuativi del Jobs Act, in cui dovrà essere prevista una disciplina volta a fornire una garanzia ai lavoratori per i quali non è previsto alcun contratto collettivo (c.d. salario minimo legale). In tal senso, l’art. 1 comma 7, lett. g), della L. n. 183 cit. prevede l’“introduzione, eventualmente anche in via sperimentale, del compenso orario minimo, applicabile ai rapporti aventi ad oggetto una prestazione di lavoro subordinato nonché, fino al loro superamento, ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, nei settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, previa consultazione delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Sembrerebbe che per effetto della valutazione del canone della rappresentatività operata dalla Corte, nei termini chiariti dalla sentenza n. 51 cit., le aree non regolate dagli accordi vadano a restringersi qualora il legislatore delegato stabilisca il “compenso orario minimo”, prendendo come parametro di riferimento i trattamenti retributivi stabiliti proprio dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In tal caso, in attuazione dell’art. 36 Cost., il Legislatore delegato si limiterebbe a definire il parametro di individuazione della retribuzione sufficiente e i contratti collettivi non diverrebbero “legge”, né per altro verso verrebbero recepiti in un atto normativo, ma costituirebbero soltanto un criterio di valutazione del principio di “giusta retribuzione”, previsto dalla Costituzione.
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