Salario minimo legale, CCNL sindacabile dal giudice
Pubblicato il 11 ottobre 2023
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Il fatto che la società abbia pacificamente retribuito i dipendenti secondo quanto previsto dal CCNL sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative e coerente con il settore merceologico in cui opera, non impedisce al giudice di merito, chiamato a valutare l'adeguatezza del salario, di discostarsi dalle previsioni della contrattazione collettiva qualora ravvisi un contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione.
Retribuzione prevista dal CCNL: sindacabile dal giudice
Lo ha ribadito la Corte di cassazione nel testo della sentenza n. 28320 del 10 ottobre 2023, tornando sulla questione della sindacabilità giudiziale delle previsioni collettive che si discostino dai parametri costituzionali di proporzionalità e sufficienza, a pochi giorni dall'importante pronuncia n. 27711/2023 sul salario minimo legale "costituzionale".
Questione, peraltro, al centro del dibattito politico, e su cui il CNEL ha elaborato un primo documento di osservazioni e proposte che verrà sottoposto, il 12 ottobre, all’Assemblea straordinaria del medesimo Consiglio.
Per gli Ermellini, restringere la portata precettiva dell’art. 36 Cost. ai soli rapporti di lavoro non tutelati dal contratto collettivo è un’interpretazione non condivisibile, perché non giustificata dal dato normativo.
Anzi, la verifica giudiziale si impone proprio qualora risulti che il trattamento economico previsto dalle parti sociali sia appena di qualche euro sopra la soglia di povertà accertata da un ente pubblico non economico come l’ISTAT.
Il giudice, in altri termini, non può sottrarsi alle valutazioni di proporzionalità e sufficienza che, seppur integrate, costituiscono le direttrici per determinare la misura della retribuzione minima secondo la Costituzione.
Proprio per la cogenza dell’art. 36 Cost., nessuna tipologia contrattuale può ritenersi sottratta alla verifica giudiziale di conformità ai requisiti sostanziali stabiliti dalla Costituzione con norma precettiva di rango sovraordinato
Nella Costituzione, infatti, esiste un limite oltre il quale non si può scendere e tale limite vale per qualsiasi contrattazione collettiva, che non può tradursi in fattore di compressione del giusto livello di salario e di dumping salariale.
Questo limite diventa pertanto cogente quando, venendo meno alla sua storica funzione, la stessa contrattazione collettiva sottopone la determinazione del salario al meccanismo della concorrenza invece “di contrastare forme di competizione salariale al ribasso”.
Ne discende che non cambia, e non può cambiare, la sperimentata regola della presunzione iuris tantum, salvo prova contraria, di conformità del trattamento salariale stabilito dalla contrattazione collettiva alla norma costituzionale: essa opera non solo “in mancanza di una specifica contrattazione di categoria”, ma anche “nonostante” una specifica contrattazione di categoria.
In ogni caso, questa è la regola di giudizio che deve essere seguita: pur individuando in prima battuta i parametri della giusta retribuzione nel CCNL, non è escluso che questi siano sottoposti a controllo e, nel caso, disapplicati allorché l’esito del giudizio di conformità all’art. 36 Cost. si riveli negativo, secondo il motivato giudizio discrezionale del giudice, con conseguente nullità delle relative clausole.
Rischio di ferie rinunciate? Clausola CCNL da disapplicare
Nella specifica fattispecie posta all'attenzione della Suprema corte, in particolare, il giudice era stato chiamato anche a verificare se la clausola collettiva sulla retribuzione delle ferie, combinata con la peculiare organizzazione dell’orario di lavoro del dipendente, potesse indurre il lavoratore a rinunciare alle ferie medesime.
Nella specie, il CCNL servizi fiduciari prevedeva che durante le ferie spettasse la “normale retribuzione”, nella cui nozione non è tuttavia prevista la retribuzione per lavoro straordinario.
Andava però considerato, in relazione all’organizzazione del lavoro dettata da una precisa scelta della società datrice, che il tempo di lavoro si connotava per turni fissi e predeterminati, tali da imporre sempre - nei quattro giorni di lavoro - lo svolgimento di lavoro straordinario (notturno e diurno).
Ebbene, se si fosse accolta la tesi della datrice di lavoro, la retribuzione percepita durante il periodo feriale sarebbe stata di molto inferiore a quella percepita durante il periodo di lavoro e non sarebbe stata neppure “paragonabile” a quest’ultima, sicché il lavoratore sarebbe stato indotto, in concreto, a rinunziare alle ferie, pur di non perdere un’apprezzabile parte del suo trattamento retributivo.
E una clausola del contratto collettivo che preveda una nozione restrittiva di “retribuzione” utile ai fini delle ferie, con esclusione di determinate voci legate al lavoro notturno o straordinario, è legittima - sul piano della garanzia offerta al singolo dipendente dall’art. 36 Cost. - a condizione che il lavoro notturno o quello straordinario rappresentino mere modalità di esecuzione della prestazione, che potrebbero cioè venire meno in qualunque momento.
Nel caso esaminato, come detto, lavoro notturno e straordinario non erano mere modalità di esecuzione della prestazione, bensì tratto tipico ed ontologicamente intrinseco al rapporto di lavoro dei dipendenti.
In presenza del rischio di ferie rinunciate - ha evidenziato la Corte - la clausola collettiva deve essere considerata nulla e, quindi, il giudice è tenuto a determinare la retribuzione spettante durante le ferie, includendovi i compensi per lavoro straordinario e notturno qualora abbiano la connotazione di emolumenti necessari (non eventuali) in virtù della particolare organizzazione del lavoro cui è obbligato il dipendente.
Se è infatti vero che, in tema di ferie, la norma costituzionale non determina la misura della retribuzione e che non vige un principio di omnicomprensività della retribuzione, è altresì vero che va comunque valutato l'ulteriore principio della irrinunziabilità delle ferie annuali.
Giusta retribuzione, ampia discrezionalità del giudice di merito
La sindacabilità giudiziale della retribuzione individuata dal CCNL è stata oggetto anche di un'altra pronuncia della Cassazione, la n. 28321 depositata sempre il 10 ottobre 2023.
Nella decisione, è stato puntualizzato che, in sede di applicazione dell’art. 36 Cost., il giudice di merito gode di un’ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione.
Egli, in particolare, può discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli contrattual-collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l’unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione.
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