Licenziamento per superamento del comporto. Ultime decisioni di Cassazione
Pubblicato il 15 settembre 2020
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Si segnalano due recenti decisioni della Corte di cassazione in materia di licenziamento per superamento del periodo di comporto.
Recesso tempestivo, valutazione di merito su adeguatezza e ragionevolezza
In una prima pronuncia, la n. 18960 dell’11 settembre 2020, la Suprema corte ha spiegato in che modo la tempestività del recesso influisca sulla sua legittimità nel caso in cui lo stesso venga intimato in relazione all'avvenuto superamento del periodo di comporto.
Nell’ipotesi considerata – hanno sottolineando gli Ermellini richiamando un principio già enunciato in sede di legittimità – il requisito della tempestività non può risolversi in un dato cronologico fisso e predeterminato, costituendo oggetto di una valutazione di congruità, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata, che il giudice di merito deve operare caso per caso, con riferimento all'intero contesto delle circostanze significative.
Licenziamento non tempestivo? Onere probatorio a carico del lavoratore
E’ dunque il lavoratore a dover dimostrare che l'intervallo temporale tra il superamento del periodo di comporto e la comunicazione di recesso abbia superato i limiti di adeguatezza e ragionevolezza, tanto che si possa dedurre la sussistenza di una volontà tacita del datore di lavoro di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto.
Difatti, in tali casi, l'interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale deve essere contemperato con quello del datore di lavoro a disporre di un tempo ragionevole, in cui valutare convenientemente la sequenza di episodi morbosi del lavoratore, ai fini di una prognosi di sostenibilità delle sue assenze in rapporto agli interessi aziendali.
Questo, a differenza del licenziamento disciplinare, che postula, invece, l'immediatezza del recesso a garanzia della pienezza del diritto di difesa all'incolpato.
Ne discende che, nei casi di licenziamento per superamento del periodo di comporto, il giudizio sulla tempestività del recesso non può conseguire alla rigida applicazione di criteri cronologici prestabiliti, costituendo “valutazione di congruità che il giudice deve compiere caso per caso, apprezzando ogni circostanza al riguardo significativa”.
Nella vicenda esaminata, la Cassazione ha ritenuto congrua e corretta una decisione con cui il giudice di appello aveva ritenuto che il tempo trascorso tra il formale compimento del periodo di comporto ed il licenziamento non fosse significativo, nella specie, di una volontà tacita, manifestata per fatti concludenti, di rinunciare alla facoltà di recedere dal rapporto ma era piuttosto finalizzata a verificare in concreto l'esistenza di margini residui di persistente utilizzabilità della prestazione con un equilibrato bilanciamento dei concorrenti interessi delle parti.
Richiesta di ferie prima della fine del periodo? No al licenziamento
Con altra decisione, la n. 19062 del 14 settembre 2020, sono state invece accolte le doglianze di una lavoratrice, rimasta in malattia sino all’esaurimento del periodo di comporto ma che aveva chiesto, poco prima della fine del detto termine, un periodo di ferie di 20 giorni (accordatole dal datore per solo un giorno).
Nel caso in esame, la Corte di cassazione ha aderito al motivo con cui la dipendente - a fronte di una sentenza di merito confermativa del licenziamento - aveva dedotto che in presenza di richiesta di un periodo di ferie da parte del lavoratore in malattia e prima del superamento del periodo di comporto, le predette ferie debbano essere accordate se non ostano obiettive ragioni organizzative o produttive.
Ferie, diniego per obiettive ragioni organizzative
Sul punto, i giudici di Piazza Cavour hanno ribadito i principi di recente affermati dalla Suprema corte, secondo cui “il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa”, ragioni che devono essere concrete ed effettive, altrimenti il conseguente licenziamento risulterebbe illegittimo.
Nel caso in esame, la società datrice di lavoro non aveva dedotto nulla in ordine alle ragioni obiettive giustificative di un diniego alla richiesta, da qui l’accoglimento del motivo di ricorso della lavoratrice.
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