Il demansionamento è sottoposto al controllo degli ispettori
Pubblicato il 16 maggio 2014
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Tizio viene adibito dall’impresa Gamma a mansioni di concetto consistenti nell’ideazione e predisposizione di progetti da realizzare nei mercati c.d. emergenti, onde ampliare le capacità produttive e di fatturato di Gamma. Quest’ultima, nel corso di esecuzione del rapporto, decide di far lavorare Tizio nell’ufficio in cui opera Caio, anch’esso deputato a svolgere mansioni volte a implementare il know-how dell’impresa. Lo spostamento di reparto di Tizio, benché pensato per attivare una proficua collaborazione con Caio, si trasforma per Tizio in un mutamento di mansioni, poiché quest’ultimo si vede ordinariamente impegnato a svolgere compiti di segreteria per Caio e per Gamma. Il tutto con la tacita e consapevole connivenza di Gamma. Tizio decide così di rivolgersi alla DTL competente chiedendo accertamenti in merito. Quali conseguenze giuridiche possono prospettarsi all’esito dell’accertamento?
Premessa
Sull’inquadramento del lavoratore, dottrina e giurisprudenza hanno mostrato da sempre una significativa attenzione, perché costituisce il crocevia per apprestare una disciplina che contemperi l’interesse del datore di lavoro ad utilizzare la prestazione lavorativa per le finalità d’impresa, con l’interesse del lavoratore ad arricchire le proprie conoscenze culturali e professionali, ricevendo al contempo una retribuzione adeguata alle mansioni espletate. Gli studi ovviamente si sono concentrati prevalentemente, se non esclusivamente, sulle dinamiche civilistiche dell’istituto, in quanto strettamente attinenti agli interessi delle parti del rapporto di lavoro. Si tratta allora di utilizzare tali studi per verificarne i risvolti sul piano ispettivo, onde comprendere come il personale ispettivo possa eventualmente affrontare le conseguenze scaturenti da un non corretto inquadramento del lavoratore. Per concludere, pare utile avvertire che il presente contributo non contiene spunti di riflessione su concetti controversi come quelli di qualifica legale e/o contrattuali e sulla nozione di categoria, giacché gli stessi, sebbene importanti, assumono un aspetto secondario rispetto alla finalità della presente indagine, avente ad oggetto principalmente gli effetti amministrativi correlati all’espletamento, da parte del lavoratore, di mansioni inferiori rispetto a quelle stabilite all’atto dell’assunzione.
Il diritto alle mansioni
Il contratto di lavoro è un contratto di scambio costituito dall’obbligazione del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione a fronte dell’obbligazione del lavoratore di svolgere la prestazione pattuita all’atto dell’assunzione. Tale prestazione si estrinseca nelle mansioni e cioè nei compiti di volta in volta affidati a costui dalla parte datoriale. Sulla base delle mansioni il datore procede all’inquadramento del lavoratore in uno dei livelli in cui si articolano le declaratorie contrattuali. Alla parte datoriale è comunque riconosciuto il potere di conformare e di mutare unilateralmente la prestazione del lavoratore adibendo quest’ultimo a compiti differenti rispetto a quelli originariamente pattuiti, ma pur sempre qualificanti rispetto alla professionalità conseguita. L’assunto è positivizzato dall’art. 2013 c.c. a tenore del quale “il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione”. La disposizione riconosce in capo al lavoratore un diritto a espletare le mansioni oggetto dell’accordo contrattuale, in funzione di realizzare, non solo gli scopi di impresa, ma anche una sua progressiva elevazione culturale e professionale e (in un’ottica allargata) della società civile. Tale diritto al tempo stesso funge da limite al potere del datore di lavoro di “spostare” il lavoratore all’interno dell’impresa in diversi reparti o uffici e quindi in maniera non standardizzata, onde utilizzarne la prestazione secondo le mutevoli esigenze aziendali
Lo ius variandi datoriale
Lo ius variandi, pertanto, salvo che venga esercitato, con il consenso dei dipendenti, per la difesa dei livelli occupazionali, postula il rispetto del canone di equivalenza che richiede un raffronto tra le mansioni stabilite in sede di assunzione e cristallizzate nell’accordo e le mansioni unilateralmente imposte dal datore in corso di rapporto. Il parametro dell’equivalenza plasma così in modo dinamico l’oggetto del contratto di lavoro e costituisce la linea ai margini della quale si può delineare la progressione di carriera ovvero il demansionamento del lavoratore, a seconda che i compiti a costui assegnati risultino rispettivamente superiori o inferiori alle mansioni pattuite all’atto del contratto di lavoro. Secondo il recente arresto della giurisprudenza l’operazione sulla base della quale si misura il pertinente inquadramento e conseguentemente si valuta se le mansioni assegnate al lavoratore risultino conformi alla professionalità contrattualmente riconosciuta si articolerebbe in tre fasi, giacché “[…] in primo luogo occorre accertare in fatto l’attività concretamente svolta dal lavoratore, poi occorre individuare categorie, qualifiche e gradi previsti dalla contrattazione collettiva ed infine occorre raffrontare il risultato della prima indagine con le previsioni di detta ultima disciplina”. Valga precisare che non sempre tale modus operandi può risultare appagante: basta considerare che spesso le mansioni risultano definite contrattualmente in termini generali, secondo formule o schemi nel cui ambito confluiscono plurime attività, che per quanto determinate convenzionalmente non possono oggettivamente annoverare l’imprevedibile e variegata realtà fenomenica. Occorre allora applicare tali clausole descrittive mediante criteri ermeneutici che stabiliscano se certe tipologie di attività, affidate in concreto al lavoratore, ma non elencate nelle declaratorie contrattuali, possano o meno essere assimilate alle mansioni pattuite all’atto dell’assunzione, al fine di rispettare ed eventualmente accrescere il profilo professionale del lavoratore. In sintesi si tratta di definire e perimetrare e il concetto di equivalenza.
L’equivalenza delle mansioni
La determinazione dell’equivalenza delle mansioni viene demandata al giudice ovvero dal personale ispettivo e può persino essere negoziata dalle stesse parti sociali mediante clausole di contratto collettivo, nelle quali far confluire, per esigenze di impresa, plurime mansioni, onde garantirne la fungibilità e il loro accorpamento in un’unica categoria, qualifica o area. Ciò non toglie comunque che, in assenza di un accordo derogatorio concluso ai sensi dell’art. 8 del D. L. n. 138/11 conv. in L. n. 148/11, l’indiscriminato accorpamento contrattuale di plurime e diverse mansioni che esprimano in concreto una diversa professionalità, resta pur sempre sottoposto alla garanzia di cui all’art. 2103 c.c., che sanziona con la nullità i patti, anche di matrice collettiva, che comportino una dequalificazione professionale del lavoratore.
La clausola di fungibilità resta sempre e comunque un indice astratto o, se si preferisce, formale e pertanto non può non essere sottoposta a un sindacato sostanziale e concreto che valuti se le mansioni affidate in corso di rapporto al lavoratore e contrattualmente qualificate equivalenti rispetto a quello pattuite all’atto dell’assunzione, siano o meno conformi alla competenza del dipendente e non ledano conseguentemente la professionalità di quest’ultimo.
Ciò è quanto emerge dalle recenti pronunce della giurisprudenza di legittimità secondo la quale “ai fini della verifica del legittimo esercizio dello ‘ius variandi’ da parte del datore di lavoro, deve essere valutata, dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di mansioni rientrino nella medesima area operativa”. In altre parole, ciò che rileva non è un’equivalenza convenzionale astrattamente considerata tra le mansioni svolte in precedenza e quelle assegnate in esercizio dello ius variandi, essendo piuttosto essenziale procedere a una ponderata e concreta valutazione della professionalità del lavoratore al fine di salvaguardare il livello professionale acquisito, onde fornire un’effettiva garanzia di accrescimento delle capacità professionali. In tale modo le pregresse mansioni vengono saldate alle nuove secondo un fil rouge che valorizza non solo ciò che il lavoratore ha fatto e che sa fare, ma anche ciò che potenzialmente è in grado di svolgere in azienda in una prospettiva di continuo aggiornamento e specializzazione.
La violazione del canone dell’equivalenza: conseguenze sul piano civile
Alla luce di tali premesse e nell’eventualità in cui la valutazione sull’equivalenza dovesse sfociare in un giudizio di violazione di tale parametro da parte del datore e quindi dell’obbligo di adibire il lavoratore alle mansioni cui ha diritto, quest’ultimo, secondo il Giudice delle Leggi, potrà accampare pretese risarcitorie di vario genere, per effetto della menomazione di “quel complesso di capacità e di attitudini che viene definito con il termine professionalità, con conseguente compromissione delle aspettative di miglioramenti all’interno o all’esterno dell’azienda”. Trattandosi dunque di un inadempimento particolarmente grave perché lesivo di beni costituzionalmente garantiti al lavoratore (salute psichica e fisica, all’immagine, vita di relazione), quest’ultimo avrà diritto a ottenere una tutela sia in forma specifica sia per equivalente.
Quanto alla possibilità di conseguire il risarcimento in forma specifica, e quindi la reintegrazione nella posizione lavorativa conforme al bagaglio professionale, la giurisprudenza ritiene che una volta “accertata la violazione della norma imperativa di cui all’art. 2103 c.c. e la conseguente nullità del provvedimento con cui siano state assegnate mansioni inferiori e lesivi del patrimonio professionale del dipendente […] è conforme al diritto la statuizione che dichiara tenuto il datore di lavoro al ripristino della precedente situazione lavorativa in base alle regole del contratto dedotto in causa, senza che ostino a tale declaratoria le successive vicende eventualmente estintive di tale obbligo e rilevanti soltanto agli effetti del risarcimento del danno”. In ordine invece alla tutela risarcitoria per equivalente l’inadempimento datoriale può essere posto alla base per una statuizione di una condanna al ristoro del pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale sofferto dal lavoratore, anche in ragione di un’eventuale perdita di chance lavorativa; incombe all’uopo sul singolo dipendente l’onere di allegare e provare, eventualmente anche in modo presuntivo, il nesso di causalità tra l’inadempimento datoriale e il danno, e in caso di perdita di chance la concreta sussistenza della probabilità di ottenere progressione di carriera. Specificatamente per quanto attiene al danno non patrimoniale quest’ultimo sarà risarcibile “ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo (pure in mancanza di intenti discriminatori o persecutori idonei a qualificarlo come “mobbing”), alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale del dipendente. nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore”.
La violazione del canone dell’equivalenza: conseguenze sul piano ispettivo
Orbene tali tutele se possono essere conseguite dal lavoratore in sede giurisdizionale, non sono tuttavia del tutto trasponibili in sede amministrativa e segnatamente sul versante ispettivo. Premesso che il personale ispettivo, alla stregua dell’organo giudicante, non agisce a tutela del lavoratore (essendo piuttosto l’azione ispettiva preordinata a garantire il rispetto delle norme imperative e inderogabile che disciplinano il rapporto di lavoro), ove nel corso di un accertamento amministrativo venisse riscontrato un inadempimento contrattuale per demansionamento, pare che possa ritenersi appannaggio del personale ispettivo adottare un provvedimento di diffida accertativa ex art. 12 D.lgs. n. 124/04, che, in luogo di una sentenza di condanna, intimi il datore di lavoro di pagare al lavoratore il credito patrimoniale eventualmente originato dall’inadempimento. Anche il Ministero del Lavoro sembra propendere per tale prospettiva laddove afferma che la diffida accertativa può essere adottata per crediti scaturenti da inadempimenti contrattuali da demansionamento. Il punto più delicato riguarda semmai la liquidazione del credito. Si ritiene che tale liquidazione possa scaturire da un giudizio necessariamente equitativo prendendo a parametro la retribuzione, quale elemento di massimo rilievo per la valutazione del contenuto professionale ed economico delle mansioni svolte dal singolo lavoratore. D’altronde la correttezza di tale procedimento resta sottoposta, come osservato dallo stesso Ministero del Lavoro, al sindacato dell’organo giurisdizionale eventualmente adito mediante opposizione al precetto intimato dal lavoratore una volta che la diffida sia divenuta titolo esecutivo. Non pare invece dubitabile che nella liquidazione possano ricomprendersi anche le pretese di natura non patrimoniale, attesa la limitazione operata dall’art. 12 D.lgs. n. 124/04 ai soli crediti di natura patrimoniali. Resterebbe comunque impregiudicato per il lavoratore proporre domanda giurisdizionale volta a conseguire anche il ristoro dei danni non patrimoniali allegando e dimostrando il pregiudizio sofferto e il nesso di causalità tra quest’ultimo e il demansionamento, se del caso avvalendosi anche degli atti ispettivi previamente acquisiti tramite accesso agli atti ex art. 22 della L. n. 241/90 e ora trasfuso nel D.lgs. n. 104/10.
Per quanto riguarda invece la tutela piena va premesso che la nullità del provvedimento di assegnazione a mansioni inferiori è rilevabile da chiunque vi abbia interesse e soprattutto opera di diritto, con la conseguenza che la stessa è dichiarabile, agli effetti amministrativi, anche dal personale ispettivo. Ne segue per corollario che il riscontro di tale patologia invalidante che affligge l’atto datoriale legittima l’adozione da parte del personale ispettivo di un provvedimento di disposizione ex art. 14 D.lgs. n. 124 cit. con cui venga dichiarata, ai sensi dell’art. 2013 c.c., la violazione delle obbligazioni e dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro, con la precisazione del comportamento che la parte inadempiente (nella specie il datore di lavoro) debba tenere per soddisfare pienamente l’interesse leso del lavoratore e consistente segnatamente nel reintegro di quest’ultimo nelle mansioni conformi al suo bagaglio professionale. Tuttavia va precisato che la legge non conferisce al provvedimento de quo il requisito della esecutorietà, cioè della capacità di adeguare lo stato di fatto a quello di diritto in maniera coercitiva da parte della Pubblica Amministrazione. E poiché tale facoltà è predicabile ai sensi dell’art. 21 ter della L. n. 241 cit. esclusivamente “nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge […]”, ne segue che in difetto di tale previsione l’eventuale inosservanza del provvedimento di diposizione comporterà per il soggetto inadempiente il pagamento di una sanzione amministrativa.
Il caso concreto
In forza delle argomentazioni sopra espresse non serve spendere ulteriori osservazioni per denunciare il demansionamento perpetrato da Gamma in danno a Tizio. Quest’ultimo è stato infatti originariamente adibito a mansioni di concetto consistenti nell’ideazione e predisposizione di progetti da realizzare nei mercati c.d. emergenti, al fine di ampliare le capacità produttive e di fatturato di Gamma. La parte datoriale nel corso di esecuzione del rapporto ha deciso di far lavorare Tizio nell’ufficio in cui opera Caio, anch’esso deputato a svolgere mansioni volte a implementare il know-how dell’impresa. Lo spostamento di reparto di Tizio, benché pensato per attivare una proficua collaborazione con Caio, si è trasformato per Tizio in un mutamento di mansioni non rispettoso del canone dell’equivalenza, poiché quest’ultimo è stato impegnato unicamente a svolgere compiti di segreteria per Caio e per Gamma. Si tratta di un mutamento che pertanto ha impoverito il bagaglio professionale di Tizio. Il tutto peraltro è stato effettuato con la tacita e consapevole connivenza di Gamma. Sicché, a seguito della denuncia di Tizio presentata alla DTL, è verosimile pensare che il personale ispettivo adotti i provvedimenti testè descritti e cioè disposizione e diffida accertativa rispettivamente preordinati a consentire il reintegro di Tizio nella posizione professionale originaria e a liquidare in favore di costui l’eventuale credito patrimoniale scaturente dall’inadempimento di Gamma.
NOTE
i Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 07/08/1998, n. 7755.
ii Lo ius variandi di cui gode il datore di lavoro è espressione della tutela costituzionale della libertà d’impresa di cui all’art. 41 Cost. cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 18/09/2013, n. 21356.
iii La giurisprudenza ha statuito che “[…] in applicazione dell’art. 2103 c.c., è illegittima la modifica in peius della mansioni del lavoratore, salvo che sia stata disposta con il consenso dello stesso al fine di evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione. In tal caso, infatti, la diversa utilizzazione del lavoratore non contrasta con l’esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole per il dipendente” cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 23/10/2013, n. 24037. Rimarca la necessità del consenso del dipendente anche Cass. civ. Sez. lavoro, 18/09/2013, n. 21356 e nella giurisprudenza di merito recentemente Trib. L’Aquila Sez. lavoro, 16/01/2013. Si osservi comunque che il datore di lavoro può licenziare il lavoratore qualora non ravvisi la possibilità di occupare diversamente il dipendente. Spetta comunque al datore di lavoro “[…] l’onere di provare l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle precedentemente svolte, pur esigendosi dallo stesso lavoratore una collaborazione nell’accertamento di un suo possibile reimpiego nel contesto lavorativo, mediante l’allegazione dell’esistenza di altri posti di lavoro nei quali poteva essere utilmente collocato, conseguendo a tale allegazione l’onere della parte datoriale di provare la non utilizzabilità dei posti predetti”. cfr. sul punto Cass. civ. Sez. lavoro, 08/11/2013, n. 25197; analogamente App. L’Aquila Sez. lavoro, 24/10/2013.
iv Trib. Bari Sez. lavoro, 29/04/2013; Trib. Genova Sez. lavoro, 17/10/2013; Trib. Pescara Sez. lavoro, 28/04/2013.
v Cass. civ. Sez. Unite, 24-11-2006, n. 25033; Trib. L’Aquila Sez. lavoro, 21/01/2013.
vi Cass. civ. Sez. lavoro, 14/06/2013, n. 15010; Cass. civ. Sez. lavoro, 01-03-2011, n. 4991; Cass. civ. Sez. lavoro, 11/11/2009, n. 23877.
vii App. L’Aquila Sez. lavoro, 11/03/2013.
viii Cass. civ. Sez. lavoro, 11/11/2009, n. 23877; Cass. civ. Sez. lavoro, 08-06-2009, n. 13173; recentemente Cass. civ. Sez. lavoro, 10/05/2013, n. 11261; App. Perugia Sez. lavoro, 20/05/2013.
ix Cass. Sez. lav., 02 maggio 2006, n. 10091.
x Corte Cost. sentenza 25 marzo - 6 aprile 2004 n. 113.
xi Cass. civ. Sez. lavoro, 19-11-2010, n. 23493; Cass. civ. Sez. lavoro, 27/04/1999, n. 4221; Cass. civ. Sez. lavoro, 12-01-2006, n. 425; Trib. Palermo Sez. lavoro Sent. 05/08/2009.
xii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 17/09/2010, n. 19785.
xiii Cass. civ. Sez. lavoro, 25/03/2014, n. 6965.
xiv Cass. civ. Sez. Unite, 23/09/2013, n. 21678.
xv Cass. civ. Sez. Unite, 22/02/2010, n. 4063; in punto di onere della prova App. Perugia Sez. lavoro, 16/09/2013 ha statuito che “nell’ipotesi in cui il lavoratore deduca di aver subito una dequalificazione professionale, non è configurabile un onere di allegazione a carico del medesimo, poiché l’art. 2103 impone all’imprenditore di utilizzarlo in compiti corrispondenti alla sua professionalità. In questi casi, dunque, il lavoratore ha soltanto l’onere di allegare le circostanze da cui si desume che sia stato dequalificato, mentre il datore di lavoro deve dimostrare di averlo adibito a mansioni corrispondenti al suo livello professionale, in occasione dell’esercizio dello ius variandi, che la stessa norma gli riconosce”.
xvi Occorre ribadire che il personale ispettivo non è un’associazione sindacale e che l’azione di polizia amministrativa esercitata nel corso delle verifiche demandate agli ispettori è presidiata dal principio di legalità e di imparzialità.
xviii Cfr. Ministero del Lavoro Circolare n. 1 cit..
xix Cfr. Cass. civ. Sez. Unite, 22/02/2010, n. 4063.
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