Videosorveglianza, necessario l’accordo sindacale

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Videosorveglianza, necessario l’accordo sindacale

Non basta ottenere l’ok da parte dei dipendenti affinché il datore di lavoro possa legittimamente installare apparecchiature di videosorveglianza sul luogo di lavoro. Infatti, ai fini del corretto rispetto della procedura prevista dall’art. 4 della L. n. 300/1970 (cd. “Statuto dei Lavoratori”), è sempre necessario ottenere l’accordo sindacale (RSA o RSU) o, se non presente, l’autorizzazione dell’Ispettorato territoriale del lavoro.

Dunque, nonostante il consenso all’installazione delle telecamere o di altri strumenti da cui possa derivare il controllo a distanza sull’attività dei lavoratori venga espresso dalla totalità delle persone che prestano la propria attività in azienda, ciò non sottrae il datore di lavoro dall’obbligo di ottenere l’accordo sindacale.

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 50919 del 17 dicembre 2019.

Videosorveglianza, l’iter procedurale

La normativa che disciplina l’installazione e l’utilizzo degli impianti di videosorveglianza è l’art. 4 della L. n. 300/1970. In via generale, laddove il datore di lavoro intendesse procedere all’installazione di apparecchiature di videosorveglianza, occorre che gli strumenti stessi siano autorizzati previo accordo collettivo stipulato:

  • dalla Rappresentanza Sindacale Unitaria (RSU);
  • dalla Rappresentanza Sindacale Aziendale (RSA).

Qualora non si giunga a un accordo con le rappresentanze sindacali, il datore di lavoro ha l’obbligo di richiedere l’autorizzazione alla sede territorialmente competente dell’INL. È possibile ricorrere direttamente all’autorizzazione amministrativa anche nel caso in cui non è presente alcuna rappresentanza sindacale in azienda.

Videosorveglianza, il consenso dei lavoratori non basta

Nel caso di specie, un datore di lavoro è stato condannato in sede penale a 1.000 euro di ammenda per avere installato diverse telecamere nella propria struttura aziendale, senza previamente raggiungere un accordo con la rappresentanza sindacale interna e neppure avere ottenuto l’avallo dell’ispettorato. Sul punto, il datore di lavoro riteneva che il consenso collettivo di tutti i lavoratori potesse sanare il vizio procedurale.

Gli ermellini, però, non concordano con questa tesi. Secondo la Corte di Cassazione, il consenso dei lavoratori che operano nell’impresa non risulta idoneo a sanare l’illecito, anche in considerazione del ruolo di parte debole che connota il lavoratore rispetto alla parte datoriale.

Pertanto, conclude la Cassazione, il consenso o l’acquiescenza che il lavoratore potrebbe, in ipotesi, prestare o avere prestato, non svolge alcuna funzione esimente, atteso che, in tal caso, l’interesse collettivo tutelato, quale bene di cui il lavoratore non può validamente disporre, rimane fuori della teoria del consenso dell’avente diritto.

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