Reintegro solo per fatti tipizzati, rischio di disparità di trattamento

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Reintegro solo per fatti tipizzati, rischio di disparità di trattamento

In una recentissima ordinanza, la Corte di cassazione ha sollevato diversi dubbi rispetto alla tesi attualmente prevalente nella giurisprudenza di legittimità che, in tema di licenziamenti disciplinari, vede limitare la reintegrazione sul posto di lavoro alle sole ipotesi tipizzate dal contratto collettivo o dal codice disciplinare, punite con sanzioni conservative.

Ai sensi di tale orientamento, infatti, solo ove il fatto contestato ed accertato sia espressamente contemplato da una previsione di fonte negoziale per il datore di lavoro, che tipizzi la condotta del lavoratore come punibile con sanzione conservativa, il licenziamento sarà legittimo e meritevole di tutela reale.

In presenza, invece, di una condotta accertata che non rientri in una di quelle descritte dai contratti collettivi ovvero dai codici disciplinari come punibili con sanzione conservativa non è possibile applicare la tutela reintegratoria.

Reintegrazione dopo licenziamento illegittimo, dubbi di ragionevolezza

Per gli Ermellini, il predetto orientamento rischierebbe di realizzare, in concreto, un’irrazionale disparità di trattamento, in quanto legittimerebbe una diversità di tutela, rispettivamente reintegratoria e indennitaria, tra comportamenti non gravi, tipizzati dal CCNL e puniti con sanzioni conservative, e fatti di pari o minore rilevanza disciplinare solo perché non espressamente contemplati dalla disciplina contrattuale.

Senza contare i forti dubbi di ragionevolezza suscitati dalla medesima tesi interpretativa nel caso in cui si faccia riferimento ai codici disciplinari redatti unilateralmente dal datore di lavoro.

Se infatti la tutela reintegratoria è accessibile solo laddove il caso addebitato coincida con una specifica condotta tipizzata e punibile con misura conservativa, sarebbe agevole per il datore di lavoro evitare sempre il rischio di reintegra in quanto basterebbe redigere il regolamento disciplinare senza inserire tipizzazioni di condotte punibili con misure conservative.

I rilievi sono stati sollevati dalla Corte di cassazione, Sesta sezione civile, con ordinanza interlocutoria n. 14777 del 27 maggio 2021, pronunciata nel contesto di un contenzioso attivato da un dipendente, oppostosi al licenziamento disciplinare per giusta causa intimatogli dal datore di lavoro.

Il Tribunale, in sede di opposizione, aveva annullato il licenziamento per difetto di giusta causa, condannando parte datoriale a reintegrare il lavoratore sul posto di lavoro e a corrispondergli un’indennità risarcitoria.

La Corte d’appello, invece, pur confermando l’illegittimità del licenziamento, aveva - alla luce del richiamato orientamento - dichiarato risolto il rapporto di lavoro, con condanna del datore a un’indennità pari a venti mensilità ai sensi dell’art. 18, comma 5 della L. 300/1970, come modificato dalla Legge Fornero.

Da qui il ricorso in sede di legittimità del lavoratore.

La Cassazione, al temine di una corposa disamina, ha ritenuto che la decisione della fattispecie oggetto di causa, per le considerazioni svolte, assumesse rilievo paradigmatico per un’ulteriore riflessione sulla portata precettiva dell’art. 18, commi 4 e 5 della Legge n. 300/1970 nonché valore nomofilattico.

Per questo motivo, ha disposto la trasmissione del procedimento alla Quarte Sezione lavoro, ritenendo che non sussistessero i presupposti per la decisione in Sesta sezione.

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