L’attività svolta in malattia ritarda la guarigione? Sì al licenziamento
Pubblicato il 04 settembre 2020
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E’ stato confermato, dalla Corte di cassazione, il licenziamento irrogato ad un lavoratore che aveva espletato, durante il periodo in cui era in malattia, attività presso terzi.
Il dipendente, assente dal lavoro per motivi di salute consistenti in una "dermatite acuta alle mani", era stato sorpreso nello svolgimento di attività lavorativa presso il bar della moglie.
L’esecuzione di tale attività aveva determinato la violazione dei doveri di correttezza e buona fede imposti in costanza di malattia, finalizzati a garantire il sollecito recupero delle energie da porre a disposizione del datore di lavoro.
Durante l’istruttoria svolta nei gradi di merito i fatti contestati erano stati pienamente confermati: la patologia da cui il prestatore era risultato affetto nel periodo di assenza dal lavoro gli avrebbe imposto una condotta diversa da quella tenuta.
Era infatti emerso, dalla deposizione dei testi, che il lavoratore aveva provveduto, tra le altre incombenze, al lavaggio di stoviglie ed alla preparazione di caffè, attività queste inidonee a garantire il recupero della propria integrità fisica nel periodo di assenza dal lavoro.
Da qui la decisione di merito, confermativa della massima sanzione espulsiva nei confronti del lavoratore.
Violati doveri di correttezza e buona fede
Questi si era quindi rivolto alla Corte di legittimità, lamentando, tra gli altri motivi, l'erronea applicazione del principio sancito dalla giurisprudenza, ai sensi del quale non sussisterebbe, per il lavoratore in malattia, un divieto assoluto di prestare, durante l'assenza, attività lavorativa in favore di terzi, “purché questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero, compromettendone la guarigione, implichi inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro”.
A suo dire, nella vicenda di cui all’oggetto, gli unici addebiti contenuti nella contestazione erano riferiti alla simulazione della malattia ed alla inattendibilità della certificazione, la cui prova, peraltro, non era stata fornita.
Doglianza, questa, giudicata non fondata dalla Corte di cassazione – sentenza n. 18245 del 2 settembre 2020 – posto che l'addebito giudicato disciplinarmente rilevante era consistito, nella sostanza, non tanto nella mancanza di giustificazione dell'assenza, quanto nella sottrazione consapevole del lavoratore all'obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in genere.
Le conclusioni dei giudici di merito, ciò posto, erano conformi a quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonché dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell'ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio "ex ante" in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio”.
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