Il Decreto Trasparenza oltre i nuovi obblighi di informazione
Pubblicato il 25 agosto 2022
In questo articolo:
Condividi l'articolo:
Superati i primi quattro articoli sui nuovi obblighi d’informazione a carico dei datori di lavoro – esaminati nel precedente approfondimento – il Decreto Trasparenza recepisce alcuni dei costanti orientamenti giurisprudenziali e tenta di innalzare le tutele per i lavoratori dipendenti ed i collaboratori coordinati e continuativi, prevedendo nuove regole sulla determinazione del periodo di prova ed una nuova spinta verso forme di lavoro “più stabile”.
Al riguardo, il legislatore ha previsto una serie di prescrizioni riguardanti la gestione del lavoratore durante il rapporto di lavoro, sia relativamente al cumulo di impieghi che alla prevedibilità minima del rapporto, nonché le eventuali forme di transizione a contratti più stabili.
Nuove modifiche vengono, infine, apportate al contratto di prestazione occasionale di cui al decreto legge 24 aprile 2017, n. 50 ed al lavoro intermittente.
Modifiche al contratto di prestazione occasionale (PrestO)
L’art. 5, comma 1, decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104, modifica la disciplina del contratto di prestazione occasionale di cui all’art. 54-bis, decreto legge 24 aprile 2017, n. 50, convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96.
Ci si riferisce a quel contratto – che ha “sostituito” i precedenti ed abusati voucher – rivolto a diverse categorie di utilizzatori, gestito dall’Istituto previdenziale, che consente – salvo specifici settori – di semplificare gli adempimenti burocratici e regolarizzare eventuali prestazioni saltuarie entro determinati limiti economici riferibili a ciascun anno civile:
- 5.000 euro per ciascun prestatore, con riferimento alla totalità degli utilizzatori;
- 5.000 euro per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori;
- 2.500 euro per le prestazioni rese da ciascun prestatore in favore del medesimo utilizzatore.
Tralasciando volutamente il dettaglio della disciplina dei c.d. PrestO, il sopracitato art. 5, introduce un ulteriore periodo alla lettera e) del comma 17, art. 54-bis, prevedendo che l’utilizzatore comunichi al prestatore in forma cartacea o elettronica, prima dell’inizio della prestazione lavorativa, le medesime informazioni rese all’Istituto previdenziale ovverosia:
- i dati anagrafici e identificativi del prestatore (semmai, quelli dell’utilizzatore in considerazione della sostanziale coincidenza dei dati del prestatore con il soggetto ricevente);
- il luogo di svolgimento della prestazione;
- l’oggetto della prestazione;
- la data e l’ora di inizio e di termine della prestazione ovvero, se si tratta di imprenditore agricolo, di azienda alberghiera o di struttura ricettiva che opera nel settore del turismo o di ente locale, la data di inizio ed il monte orario complessivo presunto con riferimento ad un arco temporale non superiore a 10 giorni;
- il compenso pattuito per la prestazione, che dovrà essere non inferiore a 36 euro per le prestazioni di durata non superiore a quattro ore nell’arco della giornata.
Era davvero indispensabile introdurre tale ulteriore obbligo ad una prestazione così saltuaria e flessibile, specie laddove sembra difficile immaginare che l’accettazione di svolgimento di una tale forma di prestazione possa realizzarsi senza che il lavoratore sia al corrente delle sopraelencate informazioni?
Ad ogni modo, l’inadempimento della consegna delle informazioni di cui al modificato comma 17, comporta, ai sensi del rivisitato comma 20, l’applicazione della sanzione pecuniaria di cui all’art. 19, comma 2, decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 (tra i 250 ed i 1.500 euro per ogni lavoratore interessato).
Modifiche al contratto di lavoro intermittente
Il secondo comma, dell’art. 5, sostituisce, invece, il comma 1, dell’art. 15, decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, prevedendo che il contratto di lavoro intermittente sia stipulato in forma scritta ai fini della prova e debba contenere, oltre alle informazioni già contemplate dall’art. 1, comma 1, del riscritto decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, i seguenti elementi:
- la natura variabile della programmazione del lavoro (giorni ed ore in cui inizia e termina la prestazione di lavoro), e le ipotesi, oggettive o soggettive, che consentono la stipula del contratto di lavoro ai sensi dell’art. 13, T.U.;
- il luogo e le modalità della disponibilità eventualmente garantita dal lavoratore;
- il trattamento economico e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita, con l’indicazione dell’ammontare delle eventuali ore retribuite garantite al lavoratore e della retribuzione dovuta per il lavoro prestato in aggiunta alle ore garantite, nonché la relativa indennità di disponibilità, ove prevista;
- le forme e le modalità con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della prestazione di lavoro e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore, nonché le modalità di rilevazione della prestazione;
- i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e dell’indennità di disponibilità;
- le misure di sicurezza necessarie in relazione al tipo di attività dedotta in contratto;
- le eventuali fasce orarie e i giorni predeterminati in cui il lavoratore è tenuto a svolgere le prestazioni lavorative.
Al riguardo, si rileva che eventuali indicazioni o clausole troppe stringenti scontano il rischio di veder virare la genuinità del contratto intermittente verso i più comuni rapporti di lavoro a tempo parziale. In tal senso, quanto alla collocazione temporale della prestazione lavorativa potrebbe essere opportuno far riferimento agli orari di apertura/chiusura della sede di lavoro.
Durata massima del periodo di prova
L’art. 7, decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104, fissa il periodo massimo del periodo di prova in sei mesi, facendo salvi eventuali durate inferiori previste dai contratti collettivi.
In ossequio al consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di periodo di prova, il comma 2 del medesimo art. 7, prevede che per i rapporti di lavoro a tempo determinato il periodo di libero recesso è stabilito in misura proporzionale alla durata del contratto e alle mansioni da svolgere in relazione alla natura dell’impiego. Resto inteso che la sopravvenienza di eventi quali malattia, infortunio, congedo di maternità o paternità obbligatori, comporta che il periodo di prova sia prolungato in misura corrispondente alla durata dell’assenza.
La norma vieta espressamente in caso di rinnovo di un contratto di lavoro per lo svolgimento delle medesime mansioni la ripetizione del periodo di prova. Tale assunto appare far marcia indietro rispetto all’evoluzione giurisprudenziale che ha affermato la legittimità della ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro con il medesimo datore di lavoro e per le stesse mansioni laddove sia dimostrata l’esigenza datoriale di verifica ulteriore del comportamento del lavoratore, specie nel caso in cui questa sia rilevante rispetto a mutamenti che possano essere intervenuti, sia nell’organizzazione dell’impresa che nelle abitudini di vita del lavoratore ovvero nei casi in cui sia intercorso un apprezzabile lasso di tempo rispetto alla precedente assunzione. La Suprema Corte ha ripetutamente ammesso un nuovo periodo di prova tra le medesime parti, ancorché sottoposto all’apprezzamento del giudice di merito, laddove questo sia necessario non solo per verificare le qualità professionali del lavoratore, ma anche il comportamento e la personalità di quest’ultimo in relazione all’adempimento delle prestazioni, elementi modificabili nel tempo in ragione dell’intervento di molteplici fattori attinenti alle abitudini di vita o alle condizioni di salute o all’organizzazione aziendale (Corte di Cassazione sentenza 12 settembre 2019, n. 22809).
Anche in tal caso, la tesi del legislatore merita una rivisitazione o, comunque, un’attenuazione di una preclusione tout court rispetto alla ripetizione del periodo di prova.
Cumulo di impieghi
L’art. 8 del Decreto Trasparenza mette nero su bianco quanto già affermato nella nostra giurisprudenza. Il datore di lavoro, fermo restando le disposizioni dell’art. 2105, Codice Civile, non può vietare al lavoratore lo svolgimento di un’altra attività lavorativa in orario al di fuori della programmazione dell’attività lavorativa concordata, né – per tale motivo – riservargli un trattamento meno favorevole. Tale “regola” già presente per i rapporti di lavoro a tempo parziale pare ora essere vigente anche per i rapporti a tempo pieno, fermo restando che – il tutto – debba rispettare i doveri di fedeltà e la disciplina in materia di riposi del lavoratore.
Al riguardo, ai sensi del comma 2, il datore di lavoro può limitare o negare al lavoratore (resta da capire come possa interagire rispetto ad un rapporto contrattuale che non lo vede parte) lo svolgimento di un diverso rapporto di lavoro qualora sussista una delle seguenti condizioni:
- pregiudizio per la salute e la sicurezza, anche per quanto attiene la disciplina e la durata dei riposi;
- la necessità di garantire l’integrità del servizio pubblico;
- l’ulteriore attività lavorativa sia in conflitto d’interessi con la principale, pur non violando il dovere di fedeltà di cui al richiamato art. 2105, Cod. Civile.
Non entrando nel merito della scelta di tutelare espressamente l’integrità del servizio pubblico e non anche quella del datore di lavoro privato, il successivo comma 3 prevede espressamente che le disposizioni si applicano anche nell’ambito dei rapporti di cui all’art. 409, n. 3, Cod. Proc. Civile, e di cui all’art. 2, comma 1, decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81. Anche in tal caso si evidenzia, specie con riferimento alle co.co.co. “pure” (ex art. 409, c.p.c.), come le stesse siano tendenzialmente più “vicine” alle fattispecie di lavoro autonomo, sicché non appare vi sia ragione – per il committente – di disciplinare forme di tutela rispetto al dovere di fedeltà, di individuare ipotesi di conflitto di interesse ovvero di prevedere un vero e proprio “orario di lavoro”, peraltro incompatibile con la natura propria del rapporto stesso.
Sono esenti dalle disposizioni in materia di cumulo di impieghi i lavoratori marittimi ed i lavoratori del settore della pesca.
Transizioni a forme di lavoro prevedibili, stabili e sicure
L’art. 10 del testo normativo in esame desta non poche perplessità rispetto alla concretezza d’applicazione. Viene concesso il “diritto” al lavoratore – ma anche al collaboratore – di richiedere per iscritto, una volta maturata un’anzianità di servizio di almeno sei mesi e che abbia completato il periodo di prova, di chiedere che gli venga riconosciuta una forma di lavoro con condizioni più prevedibili, sicure e stabili, se disponibile.
In caso di risposta negativa da parte del datore di lavoro o del committente, il lavoratore può riproporre l’istanza dopo che siano trascorsi almeno sei mesi dalla precedente.
Alle predette richieste di transizione il datore di lavoro/committente dovrà dare risposta – sempre in forma scritta – motivata. Unica semplificazione per le persone fisiche in qualità di datori di lavoro o per le imprese che occupano fino a 50 dipendenti è costituita dalla possibilità di rispondere oralmente qualora la motivazione rimanga invariata rispetto alla precedente istanza.
Sulle perplessità della disposizione, oltre a rilevare un ulteriore spiraglio di contenzioso per il datore di lavoro, specie laddove il riscontro addotto possa apparire non sorretto da giustificato motivo, i tre aggettivi utilizzati dal legislatore hanno una formulazione quantomeno atipica. La prevedibilità di una prestazione lavorativa è necessariamente collegata alle esigenze produttive e/o organizzative dell’impresa e questa, in particolare, ne determina – spesso – anche la forma contrattuale da utilizzare (senza andar per le lunghe si pensi alle attività stagionali). Al tempo stesso, potrebbe affermarsi la relazione secondo cui alla diminuzione della prevedibilità vi è una tendenza all’utilizzo di forme contrattuali meno “stabili” che, conseguentemente, assicurano una maggiore libertà al prestatore di lavoro di ricercare nuove posizioni lavorative ed un minore affidamento rispetto alle prestazioni che il datore di lavoro può ricevere dal lavoratore (ad esempio, sul lavoro intermittente senza indennità di disponibilità). Sul concetto di stabilità, ci si potrebbe soffermare su una trasformazione da tempo determinato a tempo indeterminato del contratto di lavoro, piuttosto che sull’aumento del monte ore lavorabili. Sulla sicurezza, o ci si rivolge nuovamente all’ipotesi di trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato o, magari, alla possibilità di essere adibito a mansioni meno rischiose o maggiormente sicure.
Certo è che le perplessità aumentano rispetto all’applicazione della novella anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409, c.p.c.
Diritto al ricorso e protezione rispetto all’esercizio dei diritti
L’art. 12, contenuto nel capo IV, del Decreto Trasparenza, prevede che eventuali violazioni dei diritti previsti dal medesimo decreto ovvero dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152, possono essere oggetto del tentativo di conciliazione previsto dagli artt. 410 e 411, Cod. Proc. Civile, nonché del collegio di conciliazione ed arbitrato previsto dagli art. 412 e 412-quater, Cod. Proc. Civile.
Anche qui rimane da capire quale possa essere l’oggetto della conciliazione rispetto all’eventuale adempimento o meno delle violazioni – ad esempio – sulle informazioni da rendere al prestatore di lavoro.
Ai sensi dell’art. 13, comunque, eventuali comportamenti datoriali ritorsivi o che determinino effetti sfavorevoli rispetto ai lavoratori che abbiano presentato un reclamo al datore di lavoro o che abbiano promosso un procedimento, anche non giudiziario, al fine di garantire il rispetto dei diritti previsti dal Decreto Trasparenza, comportano l’invalidità dell’atto e l’applicazione della sanzione prevista dall’art. 41, comma 2, decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (da 250 a 1.500 euro), sempreché il fatto non costituisca reato.
Al tempo stesso, il successivo art. 14, vieta i licenziamenti ed i trattamenti pregiudizievoli accusati dal lavoratore e conseguenti all’esercizio dei diritti previsti dal decreto legislativo 27 giugno 2022, n. 104 ovvero dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152. In tal senso, la norma, facendo salva la disciplina di cui all’art. 2 della legge 15 luglio 1966, n. 604, prevede che i lavoratori estromessi dal rapporto o destinatari di misure equivalenti al licenziamento adottate nei loro confronti dal datore di lavoro o dal committente possono dare espressa richiesta dei motivi delle misure adottate. Motivi che devono essere forniti per iscritto entro sette giorni dall’istanza.
Quanto al richiamo della legge 15 luglio 1966, n. 604, non può che ritenersi che la tutela sia riservata agli “altri” lavoratori (co.co.co., lavoratori occasionali, etc.). Diversamente, che fine avrebbe fatto il licenziamento ritorsivo previsto dall’art. 2, decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23?
Nota di particolare importanza è, invece, costituita dall’inversione dell’onere della prova, dunque, a carico del committente/datore di lavoro, che deve provare che le doglianze del lavoratore non siano riconducibili all’esercizio dei diritti disciplinati dal Decreto Trasparenza.
QUADRO NORMATIVO |
Ricevi GRATIS la nostra newsletter
Ogni giorno sarai aggiornato con le notizie più importanti, documenti originali, anteprime e anticipazioni, informazioni sui contratti e scadenze.
Richiedila subitoCondividi l'articolo: