Gli ispettori hanno 5 anni di tempo per accertare la fondatezza o meno del termine apposto ai contratti a tempo determinato

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Nel mese di gennaio 2013, Caio, già assunto l'anno precedente da Gamma con contratto a tempo determinato, si vede recapitare dall'impresa una nuova proposta di assunzione a termine della durata di tre mesi. Trattandosi della seconda assunzione a tempo determinato, Gamma non può avvalersi dell'eccezione dell'acausalità prevista dall’art. 1 comma 1 bis del D.lgs. n. 368/01 e tuttavia, in occasione della stipula del secondo contratto, omette di indicare le ragioni giustificative del termine. A distanza di oltre quattro mesi dalla conclusione del secondo rapporto di lavoro, e senza che Caio abbia promosso alcuna impugnazione per far rilevare la nullità del termine apposto, Gamma viene sottoposta ad accertamento ispettivo da parte del personale della DTL. Nell'occasione gli ispettori rilevano che il secondo contratto concluso con Caio è stato stipulato in violazione dell'art. 1 del D.lgs. n. 368 cit. per mancanza di idonea giustificazione e in applicazione del combinato disposto di cui all'art. 1418 comma II e 1339 c.c. riqualificano il contratto a tempo indeterminato, applicando i provvedimenti sanzionatori del caso. Gamma contesta l'operato degli ispettori rilevando che lo spirare dei termini decadenziali previsti dall'art. 32 della L. n. 183/10, senza che Caio abbia censurato la legittimità del termine, costituisce un limite invalicabile al potere degli ispettori, i quali infatti non potrebbero effettuare alcuna verifica sul punto per la definitiva stabilizzazione dell'atto datoriale. Quale esito è possibile ipotizzare rispetto alla censura mossa da Gamma?



Premessa

L’art. 32 della L. n. 183/10 (c.d. collegato lavoro) ha esteso anche alle azioni di nullità del termine il nuovo regime di impugnazione previsto per il licenziamento, sottoposto a doppio termine decadenziale.

La novella ha motivazioni di carattere prettamente deflazionistico.

In materia di contratto a tempo determinato si era infatti formato un cospicuo contenzioso giudiziario centrato essenzialmente sulle modalità di apposizione del termine al contratto. Lo scopo era di conseguire, anche a distanza di molti anni dal compimento dell’atto datoriale illegittimo, ma comunque entro i termini di prescrizione del diritto, la reintegrazione nel posto di lavoro. Nell’ordinamento previgente, infatti, l’azione per la risoluzione del contratto di lavoro a tempo determinato non solo non era assoggettata ad alcun onere di impugnativa stragiudiziale, ma neppure ad alcun termine di decadenza, ed anzi, in ragione del principio che sancisce l’imprescrittibilità dell’azione di nullità ex art. 1422 cod. civ., poteva essere proposta senza alcun limite di tempo e, quindi, anche a distanza di molti anni dalla fine del rapporto. Ne seguiva che l’imprenditore, per un rilevante periodo di tempo, restava in una situazione di incertezza in merito alla perdurante efficacia dei propri atti.

Proprio al fine di garantire la stabilizzazione delle situazioni giuridiche, l’art. 32 comma 3 lett. d) cit. prevedeva l’applicabilità del termine di decadenza di sessanta giorni per promuovere “l’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo. La disposizione è stata abrogata dalla L. n. 92/12, che tuttavia ha compensato l’effetto demolitorio modificando in via additiva la previsione contenuta alla lett. a) del medesimo comma di legge, il cui nuovo testo conferma il regime di decadenze “ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni”. Pare che la riforma abbia accorpato in un un’unica disposizione ciò che precedentemente era contenuto in due distinte previsioni nel senso che ha trasferito nella lett. a) il contenuto della originaria lett. d) dell’art. 32 comma 3 della L. n. 183 cit.. Per il momento è sufficiente rilevare che alla stregua di tale disciplina la censura dell’atto imprenditoriale presuppone necessariamente l’esecuzione di attività da compiersi entro rigorosi termini di decadenza la cui inosservanza preclude alla parte la possibilità di esercitare ogni rivendicazione.

Se è vero che tali premesse sono senz’altro applicabili alle parti del rapporto del lavoro, meno scontata appare la risposta ove vengano riferite dell’organo deputato alla verifica della regolarità dei rapporti del lavoro. Ci si chiede in altre parole se il regime previsto dall’art. 32 comma 3 lett. a) della L. n. 183 cit. possa eventualmente essere applicato anche al personale ispettivo e conseguentemente se quest’ultimo abbia o meno la facoltà di sindacare la legittimità del termine apposto al contratto una volta che i termini decadenziali siano spirati.

Il portato della norma


Un’operazione ermeneutica centrata sul dato letterale della norma porta a ritenere che la disciplina della decadenza sia applicabile non solo rispetto a controversie in cui sia in discussione la titolarità e la qualificazione di un rapporto comunque risolto per atto datoriale, ma anche nell’ipotesi in cui si controverta della durata del rapporto temporalmente delimitato da un’illegittima apposizione di un termine, la cui conclusione non è in alcun modo assimilabile a un atto di licenziamento. D’altronde la preposizione articolata “alla” che precede il sostantivo “nullità” deve essere coniugata con l’incipit del comma 3 dell’art. 32 della L. n. 183 cit. secondo la seguente connessione semantica “le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 del presente articolo, si applicano inoltre […] alla nullità del termine apposto al contratto di lavoro, ai sensi degli articoli 1, 2 e 4 del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, e successive modificazioni”.

Nella premessa che la lettera della legge costituisca il punto di riferimento di ogni analisi esegetica, si ritiene che l’enunciato agli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs. n. 368 cit. assuma una chiara vocazione delimitativa del portato della norma. Ciò significa che quest’ultima non possa essere applicata alle azioni di nullità intentate dal lavoratore per far valere la nullità del termine apposto in violazione dei divieti sanciti dall’art. 3 del D.lgs. n. 368 cit., ovvero in violazione della disciplina contenuta dell’art. 5 del D.lgs. n. 368 del 2001 che contempla la prosecuzione di fatto del rapporto, nonché il rinnovo del contratto senza soluzione di continuità, ovvero l’omesso rispetto dell’intervallo minimo prescritto dalla legge, e infine il superamento del periodo massimo complessivo di 36 mesi secondo il precetto dettato dal comma 4 bis, aggiunto dalla L. n. 247 del 2007.

Di converso la norma trova il proprio campo di applicazione unicamente alle azioni di nullità promosse per l’accertamento della carenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive, ovvero dirette a contestare la ricorrenza delle specifiche condizioni che tipizzano i settori del trasporto aereo e dei servizi postali, nonché e infine volte a sanzionare la insussistenza delle condizioni che consentono la proroga del contratto.

Ne segue che in tali circostanze il lavoratore è tenuto al rispetto del regime di impugnativa previsto dall’art. 6 della L. n. 604 cit. secondo i termini decadenziali stabiliti nella parte finale dell’art. 32 comma 3 lett. a) e con i limiti temporali stabiliti dall’art. 1 comma 12 della L. n. 92 cit.

Regime delle impugnazioni

Sinteticamente entro centoventi giorni dalla cessazione del contratto a termine verificatasi comunque dopo l’1 gennaio 2013 il lavoratore, con qualsiasi atto scritto, è tenuto a rendere nota la volontà di contestare la legittimità del termine apposto al contratto. L’impugnazione tuttavia diventa inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di centottanta giorni, “[…] dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato. La norma qualifica con l’aggettivo “successivo” il termine di centottanta giorni senza indicare il parametro di riferimento temporale precedente. Se la disposizione, come sembra corretto, configura una fattispecie a formazione progressiva allora dovrebbe prediligersi una soluzione che unifichi l’attività comunque già cominciata dal lavoratore, con la conseguenza che il termine di centottanta giorni dovrebbe decorrere dalla scadenza del periodo entro cui il lavoratore è tenuto a impugnare il contratto.

Decadenze e attività ispettiva


Sulla scorta di tali premessa si può scrutinare il cuore del tema in discussione, che riguarda l’eventuale applicazione della disciplina di cui all’art. 32 comma 3 lett. a) della L. n. 183 cit. anche nei confronti del personale ispettivo. Occorre in altre parole domandarsi se gli ispettori del lavoro abbiano o meno il potere di verificare il rispetto o meno degli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs. n. 368 cit. una volta che i termini decadenziali posti dall’art. 32 della L. n. 183 cit. siano spirati senza che il lavoratore abbia promossa l’azione relativa.

  1. Preclusione all’attività ispettiva

Al riguardo, secondo un primo indirizzo, la mancanza di impugnazioni da parte del lavoratore segnerebbe un’inequivocabile mancanza di interesse di costui nel promuovere un sindacato giurisdizionale sulle modalità di conclusione del contratto e/o del rapporto di lavoro, al fine di conseguire una declaratoria di illegittimità dell’atto impugnato in funzione ripristinatoria della prestazione lavorativa.

Sicché, una volta spirati i termini decadenziali posti dall’art. 32 lett. a) della L. n. 183 cit., la posizione soggettiva del lavoratore, ancorché lesa ab origine da un atto datoriale illegittimo, si cristallizzerebbe e non sarebbe più suscettibile di essere rimossa né dal Giudice, né tantomeno dall’Amministrazione, nei confronti della quale, invero, il rapporto di lavoro non avrebbe effetti diretti, ma semplicemente riflessi.

Secondo tale prospettiva il personale ispettivo che accerti la illegittima apposizione del termine al contratto di lavoro potrebbe dare seguito alle verifiche di competenza solo se il rapporto di lavoro:

  1. sia ancora in essere alla data della verifica;

  2. ovvero sia concluso, ma risultino ancora pendenti i termini per promuovere l’impugnazione da parte del lavoratore.

Tale assunto muoverebbe dalla necessità di non frustare la volontà del legislatore che, nell’estendere anche alle azioni di nullità del termine il nuovo regime di impugnazione previsto per il licenziamento, avrebbe inteso introdurre un meccanismo volto a bilanciare la necessità del lavoratore di far valere utilmente la pretesa al posto di lavoro con quella del datore di non vedersi esposto ad azioni o ad accertamenti finalizzate a ricollocare in organico lavoratori ormai da tempo espunti dal processo produttivo.

  1. L’assenza di termini decadenziali all’attività di accertamento amministrativo

Secondo altra prospettazione invece la norma si riferirebbe letteralmente alle sole parti del rapporto di lavoro e non anche al personale ispettivo che, come noto, non riveste tale qualifica e come tale non è soggetto alla decorrenza di termini, se non quelli imposti dalla prescrizione per l’irrogazione delle sanzioni amministrative. Anzi, la funzione esercitata dal servizio ispettivo delle DTL, in quanto trascendente interessi di parte, e preordinata invece alla tutela di indisponibili interessi di rango pubblicistico, giustificherebbe comunque un sindacato sottratto a termini decadenziali e che abbia a oggetto l’osservanza di norme inderogabili del rapporto di lavoro, quali sono, per l’appunto, quelle contenute negli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs. n. 368 cit. Il diritto delle parti resterebbe così differenziato dalla posizione superindividuale appannaggio invece della Pubblica Amministrazione. D’altronde proprio il contenuto delle funzioni assegnate dall’art. 7 del D.lgs. n. 124/04 costituirebbe argomentazione dirimente per asserire che l’impedimento all’attività ispettiva appare possibile se e solo se sussista una espressa norma di legge che disponga in tal senso. Correlativamente la mancanza di una siffatta previsione renderebbe oggettivamente non percorribile l’assunto che subordina l’esercizio dell’azione di controllo al volere delle parti contrattuali e segnatamente all’interesse del lavoratore nel far valere l’illegittimità del termine apposto al contratto. In sostanza la prospettazione che sottopone l’organo ispettivo al rispetto dei termini decandenziali avrebbe per estrema conseguenza quella di conferire alle parti la disponibilità anche dell’azione di accertamento. Infatti il lavoratore, prima o addirittura anche in pendenza dei termini, potrebbe alzare “la paletta rossa” e intimare lo stop all’ispettore, invocando il proprio disinteresse all’azione di nullità. Il che si ritiene rifuggirebbe dai canoni di ragionevolezza.

La decisione del Comitato Regionale per i rapporti del lavoro dell’Umbria


Il Comitato Regionale per i rapporti del lavoro dell’Umbria, in sede di esame di ricorso presentato ai sensi dell’art. 17 del D.lgs. n. 124 cit., ha aderito alla prospettazione che ritiene non applicabile al personale ispettivo il regime dei termini decadenziali di cui all’art. 32 della L. n. 183 cit.
. Nell’occasione è stato osservato che il concetto di azione contenuto nella lett. a) del citato articolo “[…] deve ricondursi nell’alveo del processo riferendosi al potere attribuito a un soggetto giuridico di provocare l’esercizio della giurisdizione da parte di un giudice ed in quanto l’attività di vigilanza dell’ispettore del lavoro è contraddistinta da una diversa connotazione del soggetto procedente (funzionario e non soggetto interessato) del contesto (estraneità alla sede processuale) e dalla particolare finalità (accertamento ispettivo e applicazione della sanzione)”.

In attesa di decisioni giurisdizionali sul punto e seguendo il criterio tracciato dal Comitato è possibile risolvere il caso che occupa.

Il caso concreto


Nei fatti risulta che nel mese di gennaio 2013, Caio, già assunto l’anno precedente da Gamma con contratto a tempo determinato, si è visto recapitare dall’impresa una nuova proposta di assunzione a termine della durata di tre mesi. Trattandosi di seconda assunzione a tempo determinato, Gamma non poteva avvalersi dell’eccezione dell’acausalità prevista dall’art. 1 comma 1 bis del D.lgs. n. 368/01 e, tuttavia, in occasione della stipula del secondo contratto ha omesso di indicare le ragioni giustificative del termine. A distanza di oltre quattro mesi dalla conclusione del secondo rapporto di lavoro, e senza che Caio avesse promosso alcuna impugnazione per far rilevare la nullità del termine apposto, Gamma viene sottoposta ad accertamento ispettivo da parte del personale della DTL. Nell’occasione gli ispettori hanno rilevato che il secondo contratto concluso con Caio è stato stipulato in violazione dell’art. 1 del D.lgs. n. 368 cit. per mancanza di idonea giustificazione e in applicazione del combinato disposto di cui all’art. 1418 comma II e 1339 c.c. hanno riqualificato il contratto a tempo indeterminato, applicando i provvedimenti sanzionatori del caso.

Gamma ha contestato l’operato degli ispettori rilevando che lo spirare dei termini decadenziali previsti dall’art. 32 della L. n. 183/10, senza che Caio avesse censurato la legittimità del termine, costituirebbe limite invalicabile al potere degli ispettori i quali infatti non potrebbero effettuare alcuna verifica sul punto per la definitiva stabilizzazione dell’atto datoriale.

Orbene, Gamma per convenienti ragioni di interesse, ha sollevato censure volte a sbarrare l’azione ispettiva rilevando in particolare l’avvenuta maturazione dei termini di decadenza stabiliti dall’art. 32 della L. n. 183 cit. in assenza di impugnativa del termine illegittimamente apposto al contratto da parte di Caio. Non sfugge che l’eccezione prefigura un sistema di decadenze valevole erga omnes (quindi anche nei confronti dell’amministrazione) funzionale a garantire la certezza delle situazioni giuridiche soggettive correlate al rapporto di lavoro. Le argomentazioni, pur pregevoli, risulterebbero spuntate ove si segua l’orientamento del Comitato Regionale per i rapporti del Lavoro dell’Umbria che muovendo dalla lettera della legge e dall’alterità delle situazioni soggettive riconosciute rispettivamente alle parti del rapporto di lavoro e all’amministrazione conclude nel senso di esentare quest’ultima dal regime delle decadenze previste dall’art. 32 della L. 183 cit.. Il significato che se ne trae è possibilità per il personale ispettivo, indipendentemente dalla previsione di termini decadenziali e nei soli limiti della prescrizione prevista per le sanzioni amministrative (cinque anni dal compimento del fatto), di verificare la legittimità o meno degli atti e/o dei contratti di lavoro. Con la conclusione nel caso concreto che vorrebbe secundum ius l’operato degli ispettori e correlativamente infondata l’eccezione sollevata da Gamma.


NOTE

i

In tal senso Cass. civ. Sez. Unite, 08/10/2002, n. 14381 secondo cui “nell'ipotesi di scadenza di un contratto a termine illegittimamente stipulato, e di comunicazione al lavoratore, da parte del datore di lavoro, della conseguente disdetta, non sono applicabili né la norma di cui all'art. 6l. 15 luglio 1966 n. 604, né quella di cui all'art. 18l. 20 maggio 1970 n. 300, ancorché la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato dia egualmente al dipendente il diritto di riprendere il suo posto e di ottenere il risarcimento del danno qualora ciò gli venga negato. Infatti, mentre la tutela prevista dall'art. 18 cit. attiene ad una fattispecie tipica, disciplinata dal legislatore con riferimento al recesso del datore di lavoro, e presuppone l'esercizio della relativa facoltà con una manifestazione unilaterale di volontà di determinare l'estinzione del rapporto, una simile manifestazione non è configurabile nel caso di disdetta con la quale il datore di lavoro, allo scopo di evitare la rinnovazione tacita del contratto, comunichi la scadenza del termine, sia pure invalidamente apposto, al dipendente, sicché lo svolgimento delle prestazioni cessa in ragione della esecuzione che le parti danno ad una clausola nulla. Ne consegue che, al dipendente che cessi l'esecuzione della prestazione lavorativa per attuazione di fatto del termine nullo non spetta la retribuzione finché non provveda ad offrire la prestazione stessa, determinando una situazione di mora accipiendi del datore di lavoro, situazione, questa, che non è integrata dalla domanda di annullamento del licenziamento illegittimo con la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro; in base allo stesso principio si deve escludere anche il diritto del lavoratore ad un risarcimento del danno commisurato alle retribuzioni perdute per il periodo successivo alla scadenza, così come, dalla regola generale di effettività e corrispettività delle prestazioni nel rapporto di lavoro, deriva che, al di fuori di espresse deroghe legali o contrattuali, la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente”.

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