È ammesso il lavoro straordinario di notte per i turnisti?
Pubblicato il 02 febbraio 2017
In questo articolo:
- Premessa
- Lavoro notturno e i lavoratori notturni
- La normalità della prestazione
- L’interpretazione del Ministero del lavoro
- I lavori rischiosi e che comportano tensioni fisiche e mentali
- La mancata adozione del decreto ministeriale
- Il concetto di attuazione organica della normativa comunitaria
- L’art. 8 della direttiva 93/104/CE del Consiglio del 23 novembre 1993
- Il recepimento della direttiva da parte dell’ordinamento italiano
- Eventuali discipline contrattuali sui lavori a turni
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Premessa
L’espressione “durata del lavoro notturno” contenuta nella rubrica dell’art. 13 del D.lgs. n. 66/2003 suole indicare un complesso di regole che introducono limiti all’estensione temporale del lavoro notturno stabilendo un orario di lavoro distinto da quello diurno, a fronte del fatto che l’organismo umano è più sensibile nei periodi notturni a fattori molesti dell’ambiente e che lunghi periodi di lavoro notturno sono nocivi per la salute dei lavoratori e possono pregiudicare la sicurezza dei medesimi sul luogo di lavoro. Specificatamente i fattori di rischio appaiono significativi per tutta una categoria di lavori, come quelli svolti in regolari turni periodici.
Stante la gravosità del lavoro, rispetto a tale categoria di lavoratori si pone la questione di verificare se la parte datoriale, in occasione del turno di notte, e nel rispetto del limite massimo della prestazione implicitamente deducibile dall’art. 7 del D.lgs. n. 66 cit., possa o meno richiedere ai turnisti di eseguire lavoro straordinario, stante al riguardo la prescrizione di cui all’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit..
Lavoro notturno e i lavoratori notturni
L’art. 1 comma 2 lett. d) del D.lgs. n. 66 cit. definisce periodo notturno “il periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l’intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino”. Quindi il lavoro notturno è quello svolto tra le 24 e le 7, ovvero tra le 23 e le 6, ovvero tra le 22 e le 5, indipendentemente dalla eventuale maggiorazione retributiva prevista dalla contrattazione collettiva. In base a tale definizione si può dedurre senza margine di dubbio che il turno di notte rientra nel concetto di lavoro svolto durante il periodo notturno.
Ciò tuttavia costituisce condizione essenziale, ma non sufficiente ai fini della qualifica di lavoratore notturno.
A tale fine, l’art. 1 comma 2 lett. l) del D.lgs. n. 66 cit. individua i seguenti criteri tra loro alternativi e non sovrapponibili (cfr. Ministero del Lavoro circolare n. 8 del 2005):
- qualsiasi lavoratore che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero, impiegato in modo normale;
- qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro, secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro;
- in difetto di disciplina collettiva, qualsiasi lavoratore che svolga, per almeno tre ore, lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno, con riproporzionamento del limite minimo in caso di lavoro a tempo parziale.
Le ipotesi in cui i CCNL dettino una specifica disciplina e quelle in cui i lavoratori turnisti raggiungano la soglia delle ottonata giornate di lavoro notturno nel corso dell’anno solare non sembrano destare problemi ai fini dell’applicazione dell’art. 1 comma 2 lett. l) del D.lgs. n. 66 cit.. Le questioni semmai si pongono per i casi inversi e cioè quando i contratti nulla dicono in merito e quando il numero delle notti sia inferiori alla predetta soglia quantitativa.
In tale caso rilievo decisivo assume il significato attribuibile all’espressione di prestazione giornaliera impiegata “in modo normale” per almeno tre ore durante il periodo notturno.
In sostanza quando una prestazione può definirsi svolta normalmente?
La normalità della prestazione
Una prima lettura suggerisce di circoscrivere il portato dell’art. 1 comma 2 lett. l) n. 1 del D.lgs. n. 66 cit. ai lavoratori che, in un arco temporale di riferimento, svolgono orizzontalmente la propria prestazione con un orario comprensivo di almeno tre ore di lavoro notturno.
Altro orientamento, invece, intende il concetto di impiego “normale” della prestazione nel senso di prestazione svolta in misura rilevante. Secondo tale prospettiva, pertanto, sarebbe normale la prestazione quando l’entità oraria del lavoro di notte, in un arco di tempo definito, sia quantitativamente superiore (seppur inferiore alle ottanta giornate) a quella svolta di giorno.
Per i turnisti, altro filone coglie, il concetto di “impiego normale” della prestazione giornaliera di lavoro, prendendo le mosse dalla definizione del lavoro a turni.
Quest’ultimo, stando all’art. 1 comma 2 lett. f) del D.lgs. n. 66 cit. costituisce una metodologia organizzativa che prevede, da parte dei lavoratori, l’esecuzione di prestazione “secondo un determinato ritmo”, che può essere rotativo e cadenzato, continuo o discontinuo, e che, soprattutto, sia in grado di generare una differenziazione dell’orario di lavoro in ragione di un periodo determinato di giorni o di settimane.
Ciò che si coglie dalla definizione è l’assunto per cui il lavoro in turni, che può assumere molteplici varianti, postula un’accezione della prestazione in cui la differente collocazione temporale della stessa costituisce un requisito conformante l’obbligazione dedotta in contratto.
Se è vero, infatti, che il lavoro a turni implica un’attività ritmata, suscettibile di cerare continui spostamenti temporali della prestazione lavorativa, allora va da sé che per il turnista sia normale eseguire la propria attività in differenti fasce orarie della giornata. Così è normale per il turnista lavorare periodicamente nella fascia mattutina, e poi in quella pomeridiana e/o serale, e poi ancora in quella notturna, perché tali differenziazioni, intervallate in maniera costante nel tempo, costituiscono un requisito ordinario dell’orario di lavoro assegnato al predetto lavoratore.
In tale prospettiva, pertanto, il turno che copre il periodo notturno per una durata integrale o quantomeno pari a tre ore, diventa una modulazione strutturale dell’orario del turnista, sicché quando la collocazione temporale della prestazione di quest’ultimo cade in tale fascia oraria l’attività non muta la propria connotazione di “prestazione giornaliera impiegata in modo normale”.
Secondo tale prospettiva, pertanto, non sarebbe la dimensione orizzontale dell’orario di lavoro ovvero la misura quantitativamente prevalente dell’orario notturno rispetto a quello diurno o viceversa, a qualificare in senso ordinario la prestazione del turnista, ma piuttosto il regolare e ripetitivo svolgimento dell’attività lavorativa di costui in differenti regimi orari, periodicamente avvicendati nel tempo.
Siffatte considerazioni fanno da sfondo alla previsione di cui all’art. 1 comma 2 lett. l) n. 1 del D.lgs. n. 66 cit., la quale, sul piano letterale, parla di prestazione svolta, non già quotidianamente o giornalmente, ma in modo “normale”. Tale accezione, sul piano semantico, non comprende le attività occasionali, o estemporanee, o eccezionali, mentre accoglie, quelle connotate da abitualità, o contrassegnate da un andamento ordinario o meglio ancora regolare.
L’interpretazione del Ministero del lavoro
Si tratta di una lettura condivisa dallo stesso Ministero del Lavoro che, con risposta a interpello prot. 388 del 12 aprile 2005, ha affermato che qualora il lavoratore svolga solo alcune notti di lavoro, in maniera saltuaria e non regolare, non può qualificarsi lavoratore notturno. Stante il carattere alternativo delle condizioni contemplate dall’art. 1 comma 2 lett. l) del D.lgs. n. 66 cit. (in tal senso cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 30-07-2008, n. 20724) l’assunto ministeriale postula a contrario che la programmazione regolare (il che non significa quotidiana) di attività di lavoro nel periodo notturno attribuisce al lavoratore la qualifica di lavoratore notturno.
Ancor più specificatamente con nota prot. 37/13330 del 22 luglio 2014, il Ministero del Lavoro, nel risolvere il quesito inerente alla riconduzione o meno dei lavoratori intermittenti nell’alveo dei lavoratori notturni, ha escluso che la sussunzione de qua possa operare in base alla condizione di cui all’art. 1 comma 2 lett. l) del D.lgs. n. 66 cit., poiché il concetto di “impiego normale” della prestazione mal si attaglia con la natura estemporanea dell’attività che contrassegna oggettivamente il contratto intermittente. Invero, precisa il Ministero, il concetto di normalità implica un’attività continuativa, predeterminata temporalmente, e preventivamente quantificabile, in ordine al tempo di durata del lavoro notturno.
In base a tali criteri il turnista sarebbe considerato lavoratore notturno se nella modulazione oraria predisposta dalla parte datoriale, il turno di notte assumesse una valenza non eccezionale o sporadica, ma sistematica nel corso dell’anno, perché predeterminato sulla base di una programmazione oraria, tale da rendere preventivamente quantificabile il numero delle ore e delle prestazioni di lavoro.
I lavori rischiosi e che comportano tensioni fisiche e mentali
Si rende ora necessario esaminare il secondo aspetto del problema, che riguarda l’individuazione dei lavori che comportino tensioni fisiche e mentali. Ciò al fine di verificare se le mansioni svolte dai turnisti nel corso del turno di notte, rientrino o meno in tale categoria.
L’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit. dispone che “entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali ovvero, per i pubblici dipendenti, con decreto del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, previa consultazione delle organizzazioni sindacali nazionali di categoria comparativamente più rappresentative e delle organizzazioni nazionali dei datori di lavoro, viene stabilito un elenco delle lavorazioni che comportano rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali, il cui limite è di otto ore nel corso di ogni periodo di ventiquattro ore”.
La mancata adozione del decreto ministeriale
Di primo acchito si potrebbe sostenere che la norma difetterebbe di operatività per mancata emanazione del decreto ministeriale sopra citato.
Sennonché tale tesi rischia di collidere con la finalità espressa dall’art. 1 comma 1 del D.lgs. n. 66 cit. al punto da determinare, altresì, l’inefficacia di norme volte a tutelare la salute e sicurezza dei lavoratori e a garantire l’esercizio delle funzioni di vigilanza.
Tale interpretazione in primo luogo comporterebbe la mancata uniformazione della legislazione nazionale all’obiettivo di cui all’art. 8 comma 2 della direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993.
In secondo luogo preserverebbe la parte datoriale dall’osservanza degli obblighi di cui all’art. 14 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit..
In terzo luogo neutralizzerebbe le funzioni ispettive di cui agli artt. 7 e ss. del D.lgs. n. 124/04 e, non da ultimo, determinerebbe l’inefficacia dell’apparato sanzionatorio previsto dall’art. 18 bis comma 7 del D.lgs. n. 66 cit. e dal T.U. n. 81/08.
Le conseguenze cui presta il fianco la tesi testé descritta si dissolvono ove vengano applicati i criteri logico-sistematici di cui all’art. 12 delle preleggi, letti alla luce del canone di interpretazione conforme ai principi costituzionali e comunitari.
Con riguardo a quest’ultimo profilo costituisce ormai ius receptum la regola per cui l’ordinamento interno dev’esser postulato, in sede interpretativa e applicativa, come una totalità unitaria e coerente (Fazzalari, Ordinamento giuridico, I, EG, XXI). Del pari tale ordinamento, in applicazione del canone di leale collaborazione di cui all’art. 4.3 del TUE, va armonizzato con le fonti UE, onde evitare antinomie e assicurare il completo recepimento della norma comunitaria da parte della legislazione nazionale (cfr. Corte di Giustizia CE sentenza 5 ottobre 2004, causa riunite C-397/01 a C-403/01 Pfeiffer, punto 115).
Il concetto di attuazione organica della normativa comunitaria
Si tratta di canoni accolti dal D.lgs. n. 66 cit. che, all’art. 1 comma 1 del D.lgs. n. 66 cit., fissa il principio per cui le disposizioni contenute in tal atto sono volte a dare “[…] attuazione organica alla direttiva 93/104/CE del Consiglio, del 23 novembre 1993, così come modificata dalla direttiva 2000/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 2000”, e sono altresì dirette a regolamentare i “[…] profili di disciplina del rapporto di lavoro connessi alla organizzazione dell’orario di lavoro”.
L’inciso relativo all’“attuazione organica” delle direttive va inteso nel senso che l’interpretazione della regolamentazione del decreto va condotta in funzione di assicurare il rispetto dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria. Il significato del riferimento all’organicità contenuto nell’art. 1 comma 1 del D.lgs. n. 66 cit. esprime, altresì, il concetto per cui la legislazione nazionale costituisce attuazione dell’indirizzo fondamentale che ispira la direttiva, che è quello di proteggere i beni della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Oltre che dalle premesse delle direttiva 93 cit. ciò si desume dall’art. 1 comma 1 della medesima a tenore del quale “la presente direttiva stabilisce prescrizioni minime di sicurezza e di salute in materia di organizzazione dell’orario di lavoro”.
Per ciò che riguarda specificatamente il lavoro notturno la direttiva fissa gli obiettivi di “[…] limitare la durata del lavoro [dello stesso], comprese le ore straordinarie […]” (cfr. 12° considerando) e di accordare ai lavoratori notturni, ma anche ai lavoratori a turni, “un livello di protezione in materia di sicurezza e di salute adatto alla natura del lavoro” (cfr. 14° considerando). Ciò non solo perché “alcuni studi hanno dimostrato che l’organismo umano è più sensibile nei periodi notturni ai fattori molesti dell’ambiente nonché a determinate forme di organizzazione del lavoro particolarmente gravose e che lunghi periodi di lavoro notturno sono nocivi per la salute dei lavoratori e possono pregiudicare la sicurezza dei medesimi sul luogo di lavoro” (11° considerando), ma anche perché “l’organizzazione del lavoro secondo un certo ritmo deve tener conto del principio generale dell’adeguamento del lavoro all’essere umano” (cfr. 15° considerando). La stessa direttiva richiama l’esigenza di “tener conto dei principi dell’Organizzazione internazionale del lavoro in materia di organizzazione dell’orario di lavoro, compresi quelli relativi al lavoro notturno” (9° considerando).
Al riguardo l’I.L.O., con raccomandazione 178 del 26/06/1990 ha suggerito agli Stati membri di applicare “per via legislativa, contrattuale […] o con ogni altro strumento adeguato alle condizioni e alla prassi nazionale” (cfr. punto 3 delle disposizioni generali) il principio che volto impedire lo svolgimento del lavoro straordinario ai lavoratori notturni impegnati in mansioni che “comportano rischi particolari o un’importante tensione fisica o mentale […] eccetto i casi di forza maggiore, o di incidente reale o imminente” (cfr. rubrica “orario di lavoro” punto 5 comma 2).
Da tali premesse si può arguire, pertanto, che l’attuazione della direttiva 93 cit. da parte del D.lgs. n. 66 cit. può dirsi organica nella misura in cui quest’ultimo rispetti le finalità della noma comunitaria e recepisca il collegamento che quest’ultima crea tra la disciplina dell’organizzazione dell’orario di lavoro e il sistema generale delle regole in tema di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori.
Considerato pertanto che la tutela di questi beni costituisce lo scopo cui le norme del decreto sono rivolte, l’esegesi della lettera e della ratio delle singole disposizioni oggetto di analisi, va condotta rispettando siffatto indirizzo generale.
L’art. 8 della direttiva 93/104/CE del Consiglio del 23 novembre 1993
In base a tale premessa metodologica, va rilevato che l’art. 8 della direttiva 93 cit. dispone che gli Stati membri prendono le misure necessarie affinché:
- “l’orario di lavoro normale dei lavoratori notturni non superi le 8 ore in media per periodo di 24 ore;
- i lavoratori notturni il cui lavoro comporta rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali non lavorino più di 8 ore nel corso di un periodo di 24 ore durante il quale effettuano un lavoro notturno”.
Il comma 2 del medesimo articolo recita: “ai fini del presente punto, il lavoro comportante rischi particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali è definito dalle legislazioni e/o prassi nazionali o da contratti collettivi o accordi conclusi fra le parti sociali, tenuto conto degli effetti e dei rischi inerenti al lavoro notturno”.
Il recepimento della direttiva da parte dell’ordinamento italiano
La prescrizione è stata integralmente recepita dal Legislatore italiano.
L’art. 13 comma 1 del D.lgs. n. 66 cit. ha previsto che “l’orario di lavoro dei lavoratori notturni non può superare le otto ore in media nelle ventiquattro ore, salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo di riferimento più ampio sul quale calcolare come media il suddetto limite”.
Con riferimento a tale disposizione il Ministero del lavoro ha precisato che “tale limite costituisce, data la sua formulazione, un media fra ore lavorate e non lavorate pari ad 1/3 (8/24) che, in mancanza di una esplicita previsione normativa, può essere applicato su di un periodo di riferimento pari alla settimana lavorativa - salva l’individuazione da parte dei contratti collettivi, anche aziendali, di un periodo più ampio sul quale calcolare detto limite […]” (cfr. circolare n. 8 cit.).
Qualora invece i lavoratori notturni siano adibiti, nel periodo notturno, in lavorazioni rischiose o suscettibili di cagionare rilevanti tensioni fisiche o mentali, l’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit. conformemente alla direttiva, ha stabilito un limite orario fisso di otto ore.
L’individuazione di tali lavori è stata rimessa ad apposito decreto ministeriale, che, come testé accennato, non è stato ancora emanato.
Sennonché quest’ultima circostanza non esaurisce il ruolo ricettivo della normativa interna, la quale, si ripete, postula una lettura conformativa organica.
In tal senso il riferimento della norma comunitaria alla prassi conferisce di per sé rilevanza interna a fatti, dati ed esperienze diffuse, non codificate in leggi e regolamenti, ma che comunque vengono dalla comunità socialmente ritenute valide ai fini della disciplina dei rapporti inter partes. Al di là di declinazioni normative e contrattuali, allora, è convincimento comune (come dimostra l’11° considerano della direttiva 93 cit. e la raccomandazione ILO n. 178 cit ) che il lavoro in turni rappresenti una modalità organizzativa del lavoro suscettibile di generare stress per l’organismo perché va a sconvolgere il normale ritmo del ciclo sonno/veglia inducendo cambiamenti nella normale variabilità circadiana delle funzioni biologiche.
D’altro canto vale osservare che il rinvio al decreto ministeriale operato dall’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 33 cit. costituisce una delle modalità di definizione dei lavori rischiosi indicate dalla direttiva, sol che si consideri che l’art. 17 comma 1 del medesimo D.lgs. n. 66 cit., letto in combinato disposto all’art. 1 comma 1 del medesimo testo normativo, inerente al “[…] pieno rispetto del ruolo della autonomia negoziale collettiva […]”, ha conferito “[…] ai contratti collettivi stipulati a livello nazionale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentativi”, la facoltà di derogare, tra l’altro, alla previsione di cui all’art. 13 del D.lgs. n. 66 cit..
Salvo quanto si osserverà in seguito circa il valore di prescrizione minima inderogabile del limite di otto ore (per cui infra), la facoltà conferita alle parti sociali non risulta circoscritta a una o ad alcune disposizioni dell’art. 13, ma coinvolge l’intera norma e quindi anche il comma 3 inerente alla modalità di definizione dei lavori rischiosi o disagiati. Ciò significa, in altre parole, che alla contrattazione collettiva è stata riconosciuta anche la competenza di supplire alla mancanza del decreto o di integrare quest’ultimo nella definizione dei lavori rischiosi o comportanti particolari o rilevanti tensioni fisiche o mentali nell’ipotesi. Si tratta, in sostanza, del fenomeno della c.d. delegificazione della regolamentazione dei rapporti di lavoro, che comporta la rinuncia del Legislatore a regolare in modo diretto o esclusivo, rispetto alla contrattazione collettiva, profili del rapporto di lavoro che richiedono una disciplina diversificata in ragione delle peculiarità che, per l’appunto, solo il contratto collettivo è in grado di apprezzare adeguatamente.Tali considerazioni, pertanto, spingono l’interprete, in assenza del decreto ministeriale, a verificare, in sede applicativa, se la contrattazione collettiva di settore contenga o meno una declinazione dei lavorai rischiosi o stressanti.
Eventuali discipline contrattuali sui lavori a turni
Resta a questo punto di analizzare quest'ultimo ultimo aspetto.
I contratti collettivi ai quali è rimessa la definizione dei lavori pesanti potrebbero anche disciplinare il lavoro in turni mediante disposizioni che richiedano al turnista, in caso di mancato avvicendamento integrale delle squadre, la necessità di fermarsi sul posto di lavoro fino all’arrivo del sostituto, con il conseguente obbligo di svolgere lavoro straordinario.
Se presenti, tali disposizioni sembrerebbero incompatibili con il limite dell’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit. e conseguentemente le stesse dovrebbero ritenersi invalide.
Tuttavia actus interpretandus est potius ut valeat quam ut pereat: l’interpretazione del contratto deve essere orientata nel senso in cui il suo testo possa avere qualche effetto anziché in quello in cui non ne avrebbe alcuno.
Tale operazione deve muovere da una regola non trattabile: il limite massimo delle otto ore di lavoro notturno stabilito per i lavoratori notturni adibiti in mansioni pesanti e disagiate costituisce prescrizione minima di sicurezza e che, per il principio dell’integrazione delle tutele disposte da ordinamenti diversi ma complementari, tale prescrizione non è derogabile in pejus dal legislatore nazionale, né, tantomeno, dalle parti sociali.
Sulla scorta di tale postulato si deve riconoscere che eventuali disposizioni di tal fatta circoscrivano la propria efficacia al lavoro in turni svolto durante le fasce orarie diurne. Diversamente per il turno di notte le stesse non possono assumere la valenza di deroga al limite dell’art. 13 comma 3 del D.lgs. n. 66 cit. ma fattispecie di disciplina della condotta da tenere in ipotesi di forza maggiore e caso fortuito. Con la conseguenza che solo il ricorrere di fatti straordinari, imprevedibili e non programmabili giustificherebbe il ricorso al lavoro straordinario.
Da ultimo, ma non per ultimo, non si ignora che alla base dell’obbligo gravante sui lavoratori di allungare la propria prestazione per disfunzioni riconducibili all’avvicendamento delle squadre vi siano esigenze di produzione come ragioni di sicurezza. Tuttavia, sul piano sostanziale-assiologico, quando tale fenomeno supera i ridotti margini dell’eccezionalità, il conflitto deve essere risolto accordando regolare tutela ai valori della dignità e della salute del lavoratore, perché diritti primari e assoluti, pienamente operanti anche nei rapporti tra privati (Corte Cost. sentenze n. 202 del 1991, n. 559 del 1987, n. 184 del 1986, n. 88 del 1979) e perché beni informanti le prescrizione minime delle norme comunitarie, alla cui attuazione il decreto è organicamente diretto e alla cui interpretazione quest’ultimo deve essere orientato.
Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza.
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale
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