Dimissioni per fatti concludenti, ecco i chiarimenti del Ministero del lavoro
Pubblicato il 18 aprile 2025
In questo articolo:
- La nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti
- Obiettivi della riforma
- Contenuto della circolare 6/2025
- Il quesito del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro
- La posizione dei consulenti sul ruolo della contrattazione collettiva
- La risposta del Ministero del Lavoro
- Le criticità sollevate dai consulenti del lavoro
- Residualità del termine legale: interpretazione sistematica
- La funzione della norma e la volontà legislativa
- Cosa accade in caso di prova dell’impossibilità di comunicazione
- Il ruolo dell’ispettorato del lavoro
- Mancata ricostituzione automatica del rapporto: iniziativa del datore di lavoro
- Effetti delle dimissioni per giusta causa successivamente comunicate
- Alcuni esempi
- In breve
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Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro ha inviato il 2 aprile 2025 una lettera alla direzione generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del ministero del lavoro per richiedere chiarimenti interpretativi sulla circolare n. 6 del 27 marzo 2025, che contiene le prime indicazioni applicative delle disposizioni previste dalla legge 13 dicembre 2024, n. 203.
Ebbene, il Ministero ha risposto con nota del 10 aprile 2025, chiarendo appunto le criticità sollevate dal Consiglio.
Vediamo di seguito di che si tratta.
La nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti
Con la legge n. 203 del 2024, c.d. “Collegato lavoro”, il legislatore ha introdotto una nuova procedura di dimissioni per fatti concludenti, applicabile in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta per un certo numero di giorni.
Tale meccanismo si fonda sulla presunzione legale che un’assenza non motivata e prolungata da parte del dipendente possa essere considerata una manifestazione implicita della volontà di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro.
La norma stabilisce, in via generale, che se il lavoratore si assenta senza giustificazione per 15 giorni consecutivi, il datore può attivare una procedura che porta alla cessazione del rapporto di lavoro, previa trasmissione della relativa comunicazione al Centro per l’Impiego tramite modello Unilav.
La procedura non richiede l’intervento del lavoratore né una sua espressa dichiarazione di dimissioni.
Obiettivi della riforma
La riforma si propone di colmare un vuoto normativo che obbligava il datore di lavoro ad attivare procedimenti di licenziamento per giusta causa in caso di assenza ingiustificata, con oneri probatori e procedurali significativi.
In alternativa, alcuni rapporti di lavoro restavano formalmente in essere per mesi, nonostante l’interruzione di fatto della prestazione lavorativa.
Attraverso la nuova disciplina, il legislatore intende dunque:
- semplificare le modalità di cessazione del rapporto nei casi in cui l’assenza prolungata del lavoratore lasci presumere un’abbandono volontario del posto di lavoro;
- garantire certezza giuridica a favore del datore, senza compromettere il diritto del lavoratore alla tutela in caso di impedimenti legittimi;
- incentivare l’utilizzo di meccanismi certi e trasparenti per la cessazione del rapporto, evitando forzature interpretative o ricorsi impropri al licenziamento.
Contenuto della circolare 6/2025
Con la circolare n. 6/2025, il Ministero del lavoro ha fornito le prime indicazioni operative per l’attuazione della norma.
- Viene confermato che il termine dei 15 giorni di assenza ingiustificata è il parametro base per attivare la procedura, salvo diversa previsione della contrattazione collettiva.
- Si chiarisce che il termine decorre dal primo giorno di assenza non giustificata, e la comunicazione della cessazione non può avere data anteriore.
- Si precisa che il datore non ha l’obbligo di inviare alcuna diffida al lavoratore, essendo sufficiente la verifica dell’assenza priva di giustificazione formale.
- Infine, viene ribadita la necessità di una valutazione prudente e documentata da parte del datore, per evitare contenziosi.
Il quesito del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro
Dubbi interpretativi sulla flessibilità del termine dei 15 giorni
Il Consiglio nazionale dell’Ordine dei consulenti del lavoro, con lettera del 2 aprile 2025, ha sollevato dubbi circa l’interpretazione proposta dal Ministero, secondo cui il termine di 15 giorni può essere modificato dalla contrattazione collettiva solo in senso estensivo e non riduttivo.
I consulenti hanno osservato che, dalla formulazione della norma, non sembrerebbe emergere alcun limite minimo inderogabile, lasciando invece ampio spazio alla contrattazione collettiva nazionale per definire il termine di assenza, in considerazione delle specificità settoriali.
La posizione dei consulenti sul ruolo della contrattazione collettiva
Secondo i consulenti, la ratio della disposizione risiede proprio nel demandare alla contrattazione collettiva il compito di determinare in modo calibrato il periodo di assenza che possa giustificare l’attivazione della procedura.
La previsione del termine di 15 giorni, quindi, assumerebbe un carattere residuale, applicabile solo in assenza di diversa regolazione pattizia.
Viene inoltre criticata l’impostazione ministeriale che, pur non essendo fondata su un espresso divieto normativo, introduce una limitazione interpretativa non prevista dalla legge, potenzialmente lesiva dell’autonomia contrattuale delle parti sociali.
La risposta del Ministero del Lavoro
Nella nota del 10 aprile 2025, il Ministero del Lavoro ha confermato la posizione già espressa nella precedente circolare 6/2025: la soglia dei 15 giorni di assenza ingiustificata costituisce un limite inderogabile in senso riduttivo.
La contrattazione collettiva potrà eventualmente prolungare il termine, ma non accorciarlo.
Secondo il Ministero, un termine eccessivamente breve potrebbe compromettere le garanzie minime di difesa del lavoratore, che potrebbe trovarsi nell’impossibilità di comunicare tempestivamente le ragioni della propria assenza (ad esempio per motivi di salute, tecnici, o familiari urgenti).
Il Ministero qualifica tale lettura come prudenziale, finalizzata a garantire un bilanciamento tra esigenze aziendali e diritti del lavoratore.
Tuttavia, nella stessa nota si riconosce che tale impostazione potrebbe essere oggetto di futuri ripensamenti, qualora la giurisprudenza orientasse in senso diverso.
Uno dei rischi evidenziati è dunque che, in caso di assenza ingiustificata breve, il lavoratore non avrebbe materialmente il tempo per giustificare l’assenza, soprattutto in presenza di impedimenti oggettivi alla comunicazione. Una riduzione arbitraria del termine potrebbe dunque costituire una lesione del diritto alla difesa e del principio di buona fede contrattuale.
Il richiamo al principio di inderogabilità in peius
Infine, il Ministero richiama il principio generale secondo cui le disposizioni di legge in materia lavoristica non possono essere derogate in senso peggiorativo per il lavoratore, salvo esplicita previsione.
Tale principio, tuttavia, è messo in discussione dalla dottrina e dalla prassi contrattuale recente, che riconosce alla contrattazione collettiva nazionale ampi spazi di manovra, anche con effetti meno favorevoli per il lavoratore, laddove vi sia una esplicita delega normativa.
Le criticità sollevate dai consulenti del lavoro
Rilevanza della contrattazione collettiva nazionale
Uno dei punti centrali su cui si concentrano le osservazioni critiche del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro riguarda il ruolo attribuito alla contrattazione collettiva nazionale nella definizione della durata dell’assenza ingiustificata idonea a giustificare l’attivazione della procedura di dimissioni per fatti concludenti, introdotta dalla legge n. 203/2024.
Secondo i consulenti, il legislatore avrebbe intenzionalmente rimesso alle parti sociali la facoltà di determinare – senza vincoli – il termine temporale entro cui l’assenza ingiustificata può considerarsi significativa ai fini della cessazione del rapporto. Il riferimento al termine di 15 giorni andrebbe pertanto interpretato come residuale, applicabile solo in assenza di diversa previsione contenuta nei contratti collettivi nazionali di categoria.
Questa interpretazione è coerente con la tradizione giuridica italiana, che riconosce un ruolo primario alla contrattazione collettiva nazionale nella disciplina di aspetti specifici del rapporto di lavoro. In tale contesto, limitare l’autonomia delle parti sociali significherebbe contraddire la logica stessa del rinvio normativo, che è ispirata alla valorizzazione del principio di sussidiarietà contrattuale.
Residualità del termine legale: interpretazione sistematica
I consulenti del lavoro propongono dunque una lettura sistematica e letterale della norma, dalla quale si evince che il termine di 15 giorni, pur essendo indicato nel testo legislativo, non costituisce un parametro inderogabile, ma piuttosto una clausola di chiusura. In assenza di un termine specificamente previsto dalla contrattazione collettiva, trova applicazione quello legale.
Tale impostazione è rafforzata dal fatto che la norma non prevede esplicitamente un limite minimo, né introduce una clausola di salvaguardia in favore del lavoratore che impedisca l’applicazione di termini inferiori. L’interpretazione ministeriale – che qualifica come “prudenziale” l’impossibilità di ridurre il termine – appare, dunque, come una forzatura interpretativa non supportata dal dato normativo.
Inoltre, occorre ricordare che il principio dell’inderogabilità in pejus delle disposizioni legislative trova applicazione solo in mancanza di una espressa previsione di rinvio alla contrattazione collettiva, come invece avviene in questo caso. La norma, infatti, affida chiaramente alla contrattazione collettiva la determinazione del termine, rendendo inapplicabile ogni automatismo interpretativo restrittivo.
La funzione della norma e la volontà legislativa
La funzione sostanziale della norma introdotta dalla legge n. 203/2024 è dunque quella di fornire certezza alle parti in situazioni in cui l’assenza ingiustificata del lavoratore sia sintomatica di un suo recesso implicito.
La scelta legislativa, secondo i consulenti, appare chiaramente orientata verso la flessibilità operativa, da modulare secondo le peculiarità dei diversi settori produttivi.
Attribuire alla contrattazione collettiva la possibilità di determinare il termine di assenza, anche inferiore a 15 giorni, significa riconoscere il valore della contrattazione come strumento di autoregolamentazione, particolarmente utile nei contesti dove i tempi organizzativi richiedono reazioni rapide, come nei settori stagionali, della logistica o del commercio.
Secondo questa prospettiva, la norma si fonda sulla volontà di favorire soluzioni pragmatiche, calibrate sulle esigenze reali delle imprese e dei lavoratori, piuttosto che su vincoli rigidi imposti dalla legge. Ogni interpretazione che limiti tale autonomia rischia di sovrapporsi alla volontà espressa dal legislatore, snaturando il meccanismo di delega.
Cosa accade in caso di prova dell’impossibilità di comunicazione
Il Ministero ha inoltre fornito chiarimenti in merito alla situazione in cui il lavoratore dimostri di non aver potuto comunicare tempestivamente le ragioni della propria assenza. In tale ipotesi, l’amministrazione ha evidenziato che non si determina automaticamente la ricostituzione del rapporto di lavoro.
La riattivazione del rapporto potrà avvenire solo su iniziativa del datore di lavoro, il quale, valutate le giustificazioni rese dal dipendente, potrà decidere se ripristinare il contratto oppure procedere alla cessazione definitiva.
La verifica dell’effettiva impossibilità di comunicare dovrà basarsi su elementi documentali oggettivi, ed è sempre suscettibile di valutazione giudiziale in caso di contenzioso.
Il ruolo dell’ispettorato del lavoro
Un ulteriore elemento riguarda il possibile intervento dell’Ispettorato nazionale del lavoro (INL).
Se l’INL, in sede di ispezione, accerta la mancanza dei presupposti legali per l’attivazione della procedura (ad esempio per assenza di dolo, temporaneità dell’assenza o errori nella gestione amministrativa), la cessazione disposta dal datore non produce effetti di diritto.
Anche in questo caso, tuttavia, non è previsto un automatismo di ricostituzione del rapporto. Spetta al datore di lavoro valutare la fondatezza del rilievo ispettivo e decidere se annullare la cessazione e reintegrare il lavoratore. Tale discrezionalità può ovviamente essere oggetto di contestazione giudiziale, a tutela della posizione del dipendente.
Mancata ricostituzione automatica del rapporto: iniziativa del datore di lavoro
Il Ministero ribadisce con forza anche che non opera alcuna automaticità nella ripresa del rapporto di lavoro, nemmeno in presenza di giustificazioni valide o di accertamenti favorevoli al lavoratore. La decisione finale resta nell’alveo discrezionale del datore, seppur soggetta a verifica ex post in sede giudiziale.
Questa impostazione intende salvaguardare la libertà imprenditoriale e l’autonomia organizzativa del datore, ma pone anche una questione di tutela sostanziale del lavoratore, che potrebbe trovarsi privo di mezzi di reintegrazione effettiva se non attraverso un’azione giudiziaria, con i costi e i tempi che essa comporta.
Effetti delle dimissioni per giusta causa successivamente comunicate
Rilevanza cronologica della comunicazione del lavoratore
La nota ministeriale affronta infine un’ulteriore questione: cosa accade se, dopo l’avvio della procedura di dimissioni per fatti concludenti, il lavoratore presenta dimissioni per giusta causa. Il Ministero chiarisce che, se le dimissioni giungono prima che la procedura abbia prodotto effetti, sarà questa comunicazione a determinare la cessazione del rapporto di lavoro.
Tale interpretazione assume particolare rilievo nella pratica, poiché implica una valutazione cronologica tra la data di attivazione della procedura e quella della comunicazione delle dimissioni. La procedura per fatti concludenti, infatti, produce effetti solo dalla data indicata nel modello Unilav, che non può essere anteriore alla segnalazione dell’assenza.
Effetti sul rapporto di lavoro e possibili contenziosi
La questione solleva interrogativi rilevanti in ordine alla determinazione della data di cessazione, agli effetti retributivi e contributivi e alla valutazione del diritto all’indennità di disoccupazione (NASpI), che può variare a seconda della natura della cessazione.
È verosimile che nei prossimi mesi, anche in assenza di un intervento legislativo, saranno le prime pronunce giurisprudenziali a fare chiarezza sulla prevalenza tra le diverse forme di recesso e sulla loro interazione. In attesa di orientamenti consolidati, si raccomanda ai datori di lavoro e ai consulenti del lavoro di documentare puntualmente ogni fase del procedimento e di valutare con attenzione le motivazioni eventualmente fornite dal dipendente.
Alcuni esempi
Esempio 1 – Applicazione della procedura in assenza di contratto collettivo
Marco è un lavoratore assunto in un’azienda priva di contratto collettivo nazionale applicabile. Dal 1° marzo 2025 non si presenta al lavoro e non comunica alcuna giustificazione. Il datore di lavoro, dopo aver verificato l’assenza non giustificata, attiva la procedura prevista dalla Legge 203/2024 il 17 marzo 2025, superato il termine legale di 15 giorni.
La procedura è valida, poiché è trascorso il termine previsto in via residuale dalla legge, non essendo applicabile un termine pattizio diverso.
Esempio 2 – Contratto collettivo prevede un termine ridotto
Giulia lavora nel settore della logistica, dove il CCNL prevede che la procedura di dimissioni per fatti concludenti possa essere attivata dopo 7 giorni di assenza ingiustificata. Dopo 8 giorni consecutivi di assenza ingiustificata, il datore di lavoro comunica la cessazione del rapporto.
Secondo l’interpretazione del Ministero, questa applicazione sarebbe non conforme, in quanto il termine di 15 giorni è ritenuto inderogabile in senso riduttivo. Tuttavia, i consulenti del lavoro contestano tale posizione, ritenendo legittimo il termine previsto dal contratto collettivo.
Possibile contenzioso:
Il lavoratore potrebbe impugnare la cessazione, invocando la tutela prevista dalla Circolare 6/2025. La controversia dovrebbe essere risolta dal giudice.
Esempio 3 – Lavoratore dimostra l’impossibilità di comunicare
Luca, operaio in un’azienda metalmeccanica, si assenta per 16 giorni a causa di un grave incidente domestico che lo ha costretto a letto, senza accesso a dispositivi elettronici. Non riesce a comunicare l’assenza. Il datore attiva la procedura di cessazione. Dopo la comunicazione, Luca invia un certificato medico e documentazione a supporto dell’impossibilità.
Il datore di lavoro non è obbligato a ripristinare automaticamente il rapporto di lavoro, ma può decidere di reintegrarlo. In caso contrario, Luca può impugnare il licenziamento davanti al giudice, che valuterà la congruità della documentazione.
Esempio 4 – Intervento dell’Ispettorato del Lavoro
Un lavoratore agricolo viene licenziato con procedura per fatti concludenti dopo 15 giorni di assenza. Durante un’ispezione, l’INL accerta che il lavoratore aveva inviato una comunicazione PEC contenente la richiesta di aspettativa, ma la mail non era stata letta dal datore.
L’Ispettorato rileva l’insussistenza dei presupposti di legge per la cessazione. Tuttavia, spetterà comunque al datore di lavoro decidere se revocare la cessazione o mantenerla, assumendosi il rischio di un eventuale ricorso giudiziale.
In breve
Esempio |
Contesto |
Azione del datore di lavoro |
Esito secondo il Ministero |
Possibili sviluppi |
---|---|---|---|---|
1. Mancanza di CCNL applicabile |
Assenza ingiustificata di 15 giorni, nessun contratto collettivo applicabile |
Attivazione della procedura dopo 15 giorni |
Conforme alla legge: applicazione residuale del termine |
Nessuna contestazione prevista |
2. Termine CCNL inferiore a 15 giorni |
CCNL logistica prevede attivazione dopo 7 giorni |
Attivazione della procedura all’ottavo giorno |
Non conforme secondo il Ministero (termine non riducibile) |
Rischio impugnazione da parte del lavoratore |
3. Impossibilità di comunicare |
Lavoratore infortunato e senza mezzi di comunicazione per 16 giorni |
Attivazione procedura, poi ricezione documentazione medica |
Nessun obbligo di reintegro automatico |
Decisione a discrezione del datore, possibile ricorso giudiziale |
4. Intervento dell’INL |
Comunicazione PEC del lavoratore non letta dal datore |
Cessazione attivata, poi accertamento dell’INL |
Presupposti di legge mancanti, cessazione illegittima |
Reintegrazione facoltativa, rischio contenzioso |
5. Dimissioni per giusta causa successive |
Dimissioni comunicate dopo l’avvio ma prima dell’efficacia della procedura |
Cessazione attivata, poi ricezione dimissioni |
Prevalgono le dimissioni se anteriori all’effetto Unilav |
Necessaria valutazione giudiziale sulla giusta causa |
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