Critiche diffamatorie ai capi su Facebook: sì al licenziamento
Pubblicato il 30 gennaio 2025
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L’utilizzo di strumenti informatici aziendali e dei social media può essere oggetto di valutazione disciplinare da parte del datore di lavoro, laddove il loro uso comporti violazioni dell’obbligo di fedeltà o della dignità dei colleghi e superiori gerarchici.
Il diritto di critica del dipendente nei confronti del datore di lavoro, in ogni caso, deve rispettare limiti precisi e non può sconfinare nella diffamazione.
Licenziamento per critiche diffamatorie ai superiori su Facebook, legittimità
Con ordinanza n. 2058 del 29 gennaio 2025, la Sezione lavoro della Corte di Cassazione si è occupata del licenziamento per giusta causa di una lavoratrice .
Il caso esaminato
Nella specie, il provvedimento disciplinare era stato adottato a seguito di una contestazione formale nella quale erano state segnalate gravi irregolarità nel comportamento della dipendente, giudicate reiterate e incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro.
Le motivazioni alla base del licenziamento riguardavano principalmente due aspetti.
Da un lato, la dipendente aveva inviato numerose e-mail aziendali e pubblicato post su Facebook contenenti dichiarazioni diffamatorie nei confronti dei suoi superiori.
Dall’altro, era stata rilevata una sistematica inosservanza dell’orario di lavoro, documentata attraverso il controllo delle registrazioni di ingresso e uscita.
L’esito dei giudizi di merito
La lavoratrice aveva impugnato il licenziamento davanti al Tribunale, che aveva respinto il ricorso confermandone la legittimità.
Il giudice di primo grado aveva riconosciuto la paternità delle comunicazioni e dei post diffamatori su Facebook, ritenendoli prove valide ai sensi dell’articolo 2712 del Codice Civile. Inoltre, era stata accertata la violazione dell’obbligo di fedeltà e l’inosservanza dell’orario di lavoro.
In appello, la Corte di gravame aveva confermato la decisione, sottolineando che il diritto di critica non giustifica espressioni diffamatorie.
La Corte aveva anche preso atto di una sentenza penale che aveva condannato la lavoratrice per diffamazione aggravata e ritenuto proporzionata la sanzione espulsiva, a prescindere dalle contestazioni sugli orari di lavoro.
La lavoratrice aveva presentato ricorso per Cassazione, articolando diversi motivi di impugnazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato integralmente il ricorso della lavoratrice, confermando la validità del licenziamento irrogato.
In primo luogo, la Corte ha ritenuto che la sanzione disciplinare fosse stata adottata tempestivamente, considerando giustificato il lasso di tempo intercorso tra i fatti contestati e il provvedimento disciplinare, in quanto la società aveva dovuto svolgere le necessarie verifiche e coordinarsi con la casa madre.
La Cassazione, inoltre, ha ritenuto inefficace il disconoscimento dei post Facebook da parte della lavoratrice, poiché formulato in modo generico.
I giudici di legittimità, infine, hanno inoltre confermato la valenza probatoria della sentenza penale di condanna, che aveva già accertato la responsabilità della lavoratrice per il reato di diffamazione aggravata.
Il diritto di critica non giustifica espressioni diffamatorie
Per quanto riguarda la questione del diritto di critica, la Corte ha ritenuto che le comunicazioni oggetto di contestazione non rientrassero nell’ambito della libera espressione del pensiero, ma avessero un chiaro intento diffamatorio.
Era quindi conforme a diritto il convincimento della Corte territoriale, relativo sia alle e-mail sia ai post pubblicati dalla dipendente su Facebook: quelle manifestazioni del pensiero superavano il limite della continenza formale, con conseguente inapplicabilità della scriminante del diritto di critica.
Il fatto, inoltre, che quei post non riguardassero la società, era circostanza del tutto irrilevante, poiché riguardavano comunque i superiori gerarchici della lavoratrice.
Diritto di critica con limiti
La Corte di Cassazione, in materia, ha più volte ribadito che il diritto di critica del lavoratore deve rispettare precisi limiti di continenza, veridicità e pertinenza.
Sebbene la libertà di espressione sia garantita, le critiche nei confronti del datore di lavoro devono essere fondate su fatti veri, espresse con un linguaggio corretto e rilevanti per il contesto lavorativo.
Dichiarazioni offensive, diffamatorie o prive di fondamento possono giustificare sanzioni disciplinari, compreso il licenziamento per giusta causa.
Esclusa la ritorsività del licenziamento
Infine, la Corte ha escluso che il licenziamento avesse carattere discriminatorio o ritorsivo.
La lavoratrice, sul punto, non aveva fornito elementi idonei a dimostrare che il provvedimento fosse stato adottato per ragioni estranee alle contestazioni disciplinari.
Anche il principio del "ne bis in idem" non è stato ritenuto applicabile, poiché le condotte sanzionate con il licenziamento erano successive a quelle già punite con una sospensione dal lavoro.
A conclusione del giudizio, la Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso e ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese legali sostenute dalla società.
Tabella di sintesi della decisione
Sintesi del caso | Questione dibattuta | Soluzione della Corte di Cassazione |
---|---|---|
Una lavoratrice è stata licenziata per giusta causa per aver pubblicato su Facebook e inviato e-mail aziendali con contenuti diffamatori nei confronti dei suoi superiori. Inoltre, è stata contestata l’inosservanza dell’orario di lavoro. | Se il diritto di critica del lavoratore potesse giustificare le espressioni offensive nei confronti del datore di lavoro e dei superiori, e se il licenziamento fosse proporzionato. | La Corte ha confermato la legittimità del licenziamento, stabilendo che il diritto di critica non può sconfinare nella diffamazione. Ha ritenuto che il linguaggio utilizzato superasse i limiti della continenza e che la sanzione espulsiva fosse proporzionata. |
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