Sede trasferita in altro Stato membro? Norme italiane inapplicabili
Pubblicato il 29 aprile 2024
In questo articolo:
- Società trasferita, come vanno regolati gli atti di gestione?
- Il caso esaminato
- La questione pregiudiziale rimessa alla Corte Ue
- Impatto della normativa UE sulla normativa italiana
- La Corte di giustizia Ue sulla libertà di stabilimento
- Normativa italiana restrittiva della libertà di stabilimento?
- Restrizione a libertà di stabilimento: quando è possibile?
- La decisione della Corte Ue
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Va escluso che la normativa di uno Stato membro possa stabilire la generale applicazione delle proprie norme agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro ma che svolge la parte principale delle sue attività nel primo Stato membro.
E' in questo modo che devono essere interpretati gli articoli 49 e 54 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE) sulla libertà di stabilimento delle società.
Le puntualizzazioni giungono dalla Corte di giustizia dell'Unione europea, nel testo della sentenza del 25 aprile 2024 relativa alla causa C-276/22.
Società trasferita, come vanno regolati gli atti di gestione?
La Corte europea si è espressa rispetto a una domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte di cassazione italiana, nell’ambito di una causa che verteva sulla legittimità del trasferimento della proprietà di un complesso immobiliare.
Il caso esaminato
Una società italiana che gestiva un immobile di valore aveva modificato il proprio nome e trasferito la propria sede legale in Lussemburgo, trasformandosi in un'entità giuridica lussemburghese.
La società aveva successivamente nominato un'amministratrice delegata che, a sua volta, aveva incaricato un mandatario generale di compiere tutte le azioni e operazioni necessarie.
In seguito, la proprietà dell'immobile era stata ceduta e successivamente trasferita a un'altra società italiana.
La società lussemburghese si era rivolta al Tribunale di Roma per chiedere l’annullamento dei due trasferimenti di proprietà, sostenendo che l’attribuzione di poteri fosse illegittima ai sensi del diritto italiano.
Il Tribunale di Roma, in primo grado, aveva giudicato regolare tale attribuzione ma la Corte d’appello successivamente adita aveva riformato la sentenza.
La questione pregiudiziale rimessa alla Corte Ue
Da qui il ricorso davanti alla Corte di cassazione, che aveva deciso di rinviare la questione alla Corte di giustizia Ue alla luce di quanto previsto dalla normativa italiana in materia.
Andava chiarito, nella specie, se la costituzione come società lussemburghese comportasse l’assoggettamento al diritto lussemburghese degli atti di gestione di tale società, che aveva tuttavia mantenuto il centro della propria attività in Italia.
Secondo l’articolo 25, della Legge n. 218/1995, le società stabilite in un altro Stato membro che svolgono la parte principale delle loro attività in Italia devono rispettare, nella realizzazione dei loro atti di gestione, oltre agli obblighi eventualmente derivanti dal diritto del loro Stato membro di stabilimento, il diritto italiano.
Impatto della normativa UE sulla normativa italiana
Con la questione pregiudiziale, in altri termini, la Cassazione chiedeva se, ai sensi degli articoli 49 e 54 TFUE, fosse ammissibile la normativa di uno Stato membro che - come quella italiana - porta ad applicare il suo diritto nazionale agli atti di gestione di una società stabilita in un altro Stato membro ma che svolge la parte principale delle sue attività nel primo Stato membro.
La Corte di giustizia Ue sulla libertà di stabilimento
La Corte di giustizia, in primo luogo, ha richiamato la giurisprudenza resa dai giudici europei per quanto riguarda la disciplina dell’articolo 49 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 54 TFUE.
Tali articoli accordano il beneficio della libertà di stabilimento alle società costituite in conformità alla legislazione di uno Stato membro e con la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione europea.
La libertà di stabilimento comporta, in particolare, la costituzione e la gestione di tali società alle condizioni definite dalla legislazione dello Stato membro di stabilimento per le proprie società (Corte di giustizia Ue, causa C‑106/16, sentenza del 25 ottobre 2017).
Le dette società hanno il diritto di svolgere la loro attività in un altro Stato membro, e la localizzazione della loro sede sociale, della loro amministrazione centrale o del loro centro di attività principale serve a determinare, al pari della cittadinanza delle persone fisiche, il loro collegamento all’ordinamento giuridico di uno Stato membro (Corte di giustizia Ue, causa C‑208/00, sentenza del 5 novembre 2002).
In assenza di uniformazione nel diritto dell’Unione, la definizione del criterio di collegamento che determina il diritto nazionale applicabile ad una società rientra nella competenza di ciascuno Stato membro.
Nella vicenda esaminata, risultava che la società:
- era stata costituita nel 2004 come società lussemburghese;
- aveva la propria sede sociale in Lussemburgo;
- svolgeva la parte principale delle sue attività in un altro Stato membro, ossia in Italia.
Ebbene, la situazione di tale società e, in particolare, gli atti di gestione da essa adottati in relazione alle attività in Italia rientravano nell’ambito della libertà di stabilimento.
Normativa italiana restrittiva della libertà di stabilimento?
A questo punto occorreva determinare se la normativa italiana costituisse una restrizione alla libertà di stabilimento.
Anche per quanto riguarda tale aspetto, la Corte di giustizia ha richiamato la propria giurisprudenza per indicare esempi di misure che possono essere considerate restrizioni alla libertà di stabilimento, ai sensi dell’articolo 49 TFUE.
Determinano una restrizione della libertà di stabilimento - si legge nella decisione - tutte le misure che vietano, ostacolano o rendono meno attrattivo l’esercizio di tale libertà (Corte di giustizia Ue, causa C‑442/02, sentenza del 5 ottobre 2004).
Ebbene, per la Corte di giustizia una normativa come quella in esame rendeva più difficile la gestione di tali società, obbligandole a conformarsi ai requisiti imposti da entrambi i diritti.
Tale normativa, a ben vedere, costituisce un ostacolo all’esercizio della libertà di stabilimento.
Nel caso di specie, infatti, risultava che la società era una società di diritto lussemburghese, la cui sede sociale si trovava in Lussemburgo.
Tuttavia, per quanto riguardava i suoi atti di gestione, l’applicazione dell’articolo 25, paragrafo 1, seconda frase, della legge n. 218/1995 assoggettava tale società al diritto italiano, per il solo motivo che essa svolgeva la parte principale delle sue attività in Italia.
Tale applicazione cumulativa del diritto di due Stati membri poteva rendere più difficile la gestione della società.
Restrizione a libertà di stabilimento: quando è possibile?
Di seguito la Corte di giustizia ha rammentato che, per costante giurisprudenza, è anche possibile ammettere una restrizione alla libertà di stabilimento.
La restrizione, tuttavia, è ammissibile solo se:
- risulti giustificata da motivi imperativi di interesse generale;
- sia idonea a garantire il conseguimento dello scopo da essa perseguito;
- non ecceda quanto necessario per raggiungerlo.
Nell'ordinanza di rinvio, la Cassazione non aveva indicato le ragioni che avrebbero potuto giustificare la restrizione alla libertà di stabilimento.
Indicazioni, queste, che non risultavano nemmeno dal tenore letterale dell’articolo 2381 del codice civile.
Dalle memorie del Governo italiano, tuttavia, risultava che la restrizione alla libertà di stabilimento di cui trattasi era giustificata dall’obiettivo di tutela dei soci, dei creditori, dei dipendenti e dei terzi.
Una restrizione di tal genere - ha puntualizzato la Corte di giustizia - poteva essere idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo richiamato ma non doveva eccedere quanto necessario per raggiungerlo.
Nel caso in esame, tuttavia, l’applicazione della normativa italiana era dovuta unicamente al fatto che l’attività si svolgeva in Italia, ma non è stata fornita alcuna prova dell’eventuale rischio di creditori o lavoratori.
La decisione della Corte Ue
Tutto ciò considerato, la normativa nazionale risultava eccedere quanto necessario per raggiungere l’obiettivo di tutela degli interessi menzionati.
La Corte di giustizia Ue, in conclusione, ha così dichiarato:
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