Retribuzioni di anzianità nella Pa: norma retroattiva incostituzionale
Pubblicato il 12 gennaio 2024
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Un intervento legislativo retroattivo che interferisca su giudizi ancora in corso può essere consentito solo per imperative ragioni di interesse generale.
Lo ha puntualizzato la Corte costituzionale con sentenza n. 4 dell'11 gennaio 2024, nel dichiarare l'illegittimità di una norma sulle retribuzioni di anzianità dei dipendenti pubblici.
Nella specie, i giudici costituzionali si sono pronunciati riguardo all’art. 51, comma 3, della Legge n. 388/2000, che ha disposto, con valenza retroattiva, l'esclusione dell’operatività di maggiorazioni alla retribuzione individuale di anzianità dei dipendenti pubblici in relazione al triennio 1991-1993.
La disposizione, censurata dal Consiglio di Stato, era stata introdotta a fronte di un orientamento giurisprudenziale che stava invece riconoscendo a tali dipendenti il diritto ad ottenere il menzionato beneficio economico dalle amministrazioni di appartenenza.
Principio di non retroattività: rilievo non solo nel penale
Nella decisione, è stato ricordato come la Consulta, davanti a leggi aventi efficacia retroattiva, sia chiamata ad esercitare uno scrutinio particolarmente rigoroso, in ragione della centralità che assume il principio di non retroattività della legge, fondamentale valore di civiltà giuridica non solo nella materia penale ma anche in altri settori dell’ordinamento.
Il controllo di costituzionalità diviene ancor più stringente laddove l’intervento legislativo retroattivo incida su giudizi ancora in corso, specialmente nel caso in cui - come nella specie - sia coinvolta nel processo un’amministrazione pubblica.
Difatti, i principi costituzionali relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale e i principi concernenti l’effettività della tutela giurisdizionale e la parità delle parti in giudizio impediscono al Legislatore di risolvere, con legge, specifiche controversie e di determinare, per questa via, uno sbilanciamento tra le posizioni delle parti in causa.
Norma retroattiva per giudizi in corso, legittima?
La Corte costituzionale, quindi, per verificare se l’intervento legislativo retroattivo sia effettivamente preordinato a condizionare l’esito di giudizi pendenti, è tenuta a svolgere - in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte EDU - uno scrutinio che assicuri una “particolare estensione e intensità del controllo sul corretto uso del potere legislativo”, e tenga conto delle concrete tempistiche e modalità dell’intervento legislativo.
Un’interferenza del Legislatore su giudizi in corso potrebbe giustificarsi, infatti, solo in presenza di imperative ragioni di interesse generale, ragioni che devono essere trattate con il massimo grado di circospezione, per come impongono i principi dello stato di diritto e del giusto processo.
Consulta: incostituzionale escludere retroattivamente le maggiorazioni
I giudici costituzionali hanno in primo luogo riconosciuto che la norma censurata, priva dei caratteri della legge di interpretazione autentica, avesse la portata di una legge innovativa, con efficacia retroattiva.
Ebbene, rispetto ad essa, la Consulta ha ravvisato che non sussistessero imperative ragioni di interesse generale tali da giustificare, nei termini sopra detti, la relativa emanazione.
La disposizione censurata, a ben vedere, avendo introdotto una norma innovativa ad efficacia retroattiva, al fine specifico di incidere su giudizi pendenti in cui era parte la stessa amministrazione pubblica, e in assenza di ragioni imperative di interesse generale, si poneva in contrasto:
- con i principi del giusto processo e della parità delle parti in giudizio, sanciti dagli artt. 111, commi primo e secondo, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 CEDU;
- nonché con i principi di eguaglianza, ragionevolezza e certezza dell’ordinamento giuridico di cui all’art. 3 Cost.
Da qui la declaratoria di illegittimità costituzionale.
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