Patto di non concorrenza violato, dimissioni senza giusta causa
Pubblicato il 05 agosto 2021
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Confermata, dalla Corte di cassazione, la decisione con cui la Corte d’appello aveva accertato l’insussistenza della giusta causa delle dimissioni rassegnate dal manager di una banca, attesa l’accertata violazione del patto di non concorrenza e del divieto di storno contrattualmente pattuiti.
Per l’effetto, il dirigente era stato condannato a pagare l’indennità sostitutiva di preavviso e la penale risarcitoria prevista per ciascuna delle violazioni predette, nonché a restituire il corrispettivo percepito per il patto di non concorrenza.
I giudici territoriali, nell’accertare le predette violazioni, avevano rilevato che il dipendente, in realtà, aveva rassegnato le proprie dimissioni con l’intento di passare ad un nuovo datore di lavoro.
Il manager si era rivolto alla Suprema corte, censurando, tra gli altri motivi, violazione e falsa applicazione di legge, per avere, la Corte di merito, erroneamente ritenuto valido il patto di non concorrenza intervenuto tra le parti nonché congrua l’entità della penale risarcitoria pattuita.
Validità del patto di non concorrenza: i criteri dettati dalla Cassazione
Con ordinanza n. 22247 del 4 agosto 2021, la Sezione Lavoro della Cassazione ha richiamato i criteri dettati dalla giurisprudenza di legittimità al fine di valutare la validità del patto di non concorrenza disciplinato dall’art. 2125 c.c.
Secondo gli Ermellini, in particolare, il patto di non concorrenza:
- non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate dal lavoratore nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche volte dal datore di lavoro;
- non deve essere di ampiezza tale da comprimere l’esplicazione della concreta professionalità del prestatore in termini che ne compromettono ogni potenzialità reddituale;
- non deve prevedere compensi simbolici o manifestamente iniqui o sproporzionati in rapporto al sacrificio richiesto;
- può prevedere un corrispettivo erogato anche nel corso del rapporto di lavoro.
Tali principi, nella specie, erano stati convenientemente applicati dalla Corte d’appello, la quale aveva proceduto alla ricognizione del patto di non concorrenza, con riguardo al momento della decorrenza della sua efficacia.
Per verificare, inoltre, se la capacità professionale del lavoratore e la correlata capacità di procurarsi un reddito adeguato fossero risultate compresse, aveva valutato che il patto aveva una durata esigua (tre mesi) e una estensione territoriale dalla quale esulavano numerosi Stati europei; inoltre, il corrispettivo di spettanza del dipendente aveva una consistente entità (16mila euro al mese).
Era legittima, in definitiva, la conclusione a cui era giunta la medesima Corte: il patto di non concorrenza era stato validamente stipulato poiché non appariva sostenibile ritenere che il mancato svolgimento delle attività contemplate dalla clausola in esame, per soli tre mesi, nelle nazioni indicate nel patto, a fronte di una retribuzione come quella indicata, avesse potuto privare il ricorrente dei mezzi di sussistenza o lederne in modo assorbente la relativa professionalità.
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