Obbligo di repechage: la prova è sempre del datore di lavoro
Pubblicato il 05 marzo 2021
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La Corte di Cassazione torna sul tema dell'obbligo di repechage, oggetto di orientamenti giurisprudenziali non sempre univoci, per tracciare i confini dell'onere probatorio (tutto) a carico del datore di lavoro nella sentenza, sez. Lavoro, n. 6084, depositata in data 4 marzo 2021.
Licenziamento individuale per soppressione del posto di lavoro
Un lavoratore impugna dinanzi al Tribunale il licenziamento intimatogli dal datore di lavoro.
Il giudice di merito rigetta l'impugnativa adducendo, tra le altre motivazioni:
- la mancata prova della cessazione del rapporto di lavoro (a dire del lavoratore, il licenziamento era stato intimato oralmente);
- l'aver accertato che effettivamente la società datrice di lavoro aveva subito una riduzione delle vendite e del fatturato, da cui era scaturita la necessità di ridurre il numero dei dipendenti;
- e, in merito all'obbligo di repechage, la mancata indicazione da parte del lavoratore dell'esistenza dei posti di lavoro nei quali essere ricollocato nonchè delle mansioni a cui era preposto, circostanza che non aveva determinato il sorgere dell'obbligo probatorio a carico del datore di lavoro.
Il lavoratore propone ricorso presso la Corte di appello, che viene rigettato e successivamente adisce la Corte di Cassazione.
La società resiste con controricorso.
Riorganizzazione aziendale e calo del reddito di impresa
Il lavoratore denuncia in primo luogo la violazione e falsa applicazione dell'art. 2 della legge n. 604/66 e, in particolare, delle norme che vietano al datore di lavoro la possibilità di introdurre in giudizio motivi di licenziamento diversi rispetto a quelli espressi nella lettera di licenziamento.
In pratica, nella lettera di licenziamento, la società aveva addotto come motivazione del recesso la riorganizzazione aziendale con soppressione della mansione affidata al lavoratore laddove invece, nella memoria di costituzione in giudizio, aveva rappresentato una consistente riduzione del portafoglio cliente che aveva determinato la necessità di riorganizzazione del personale.
Due circostanze di fatto, ad avviso della Suprema Corte, non in contrasto tra loro.
Inoltre i giudici di legittimità evidenziano che dalla documentazione esaminata dalla Corte di merito emergeva di fatto un'apprezzabile riduzione del reddito di impresa e del valore della produzione netta, idoneo a giustificare il licenziamento.
Il motivo di ricorso è pertanto infondato.
Obbligo di repechage: onere probatorio del datore di lavoro
Fondato è invece il rilevo in orine alla denunciata violazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604/1966 e dell'art. 2967 cc.
Qui la Corte di merito ha erroneamente subordinato, con riferimento all'obbligo di repechage, l'onere del datore di lavoro di provare l'impossibilità di adibire il dipendente da licenziare ad altre mansioni all'indicazione da parte del lavoratore dell'esistenza di posti in cui lo stesso potesse venire ricollocato.
Di converso, i giudici di legittimità chiariscono che, in materia di repechage, non sussiste nessun obbligo di cooperazione da parte del lavoratore, in quanto l'onere probatorio grava esclusivamente sul datore di lavoro.
A sostegno di questo principio sovviene l'art. 3 della legge n. 604/1966 che prevede i seguenti presupposti:
a) la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente, ma non necessariamente la soppressione di tutte le mansioni in precedenza attribuite allo stesso;
b) la riferibilità della soppressione a progetti o scelte datoriali, insindacabili dal giudice per congruità e opportunità, purchè effettivi e non simulati, diretti ad incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa, ovvero sui suoi processi produttivi, compresi quelli finalizzati ad una migliore efficienza ovvero ad un incremento di redditività;
c) l'impossibilità di reimpiegare il lavoratore in mansioni diverse.
L'onere probatorio per tutti questi elementi ricade sul datore di lavoro, che può assolverlo anche ricorrendo a presunzioni. In nessun caso invece il lavoratore è tenuto ad indicare i posti di lavoro allo stesso assegnabili.
Alla luce delle predette argomentazioni, la Corte di Cassazione cassa la sentenza impugnata e rinvia ad un nuovo giudice di merito l'esame della controversia.
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