Non svolge attività di lavoro il religioso che opera nelle strutture commerciali gestite dalla Congregazione di appartenenza
Pubblicato il 29 marzo 2013
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L’Istituto “Sacro Cuore” persegue finalità prevalentemente religiose accompagnate anche da una gestione diretta di marginali attività commerciali, quali un negozio di souvenir, attività di guida turistica nonché di affitta camere per turisti. Tizio, dopo aver condotto gran parte della propria vita al servizio dell’Istituto religioso “Sacro Cuore” avendo emesso il voto di professare in forma speciale i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, decide di recedere dalla propria scelta e di abbandonare la Congregazione di appartenenza e di tornare a una vita laica. Una volta spogliatosi dell’abito religioso, Tizio prende atto di non avere alcuna tutela previdenziale e retributiva. Tizio così si reca alla DTL di competenza per chiedere delucidazioni in ordine alla propria posizione, rappresentando di aver svolto nel corso della proprio cammino di fede plurime attività in favore dell’Istituto “Sacro Cuore”, tra le quali anche quelle commerciali sopra menzionate. Tizio conclude chiedendo al personale ispettivo l’accertamento in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro con connessa tutela retributiva e previdenziale. Cosa è legittimo attendersi dagli ispettori?
Premessa
Gli istituti religiosi sono organizzazioni di tendenza, che perseguono scopi prevalentemente se non esclusivamente di carattere culturale ed evangelico. Su tali requisiti, ma non solo, gli Istituti conseguono, mediante apposito procedimento, la natura di ente ecclesiastico. La finalità prevalentemente religiosa perseguita non esclude la possibilità da parte degli Istituti, di esercitare, in via marginale ed accessoria, anche attività laiche e persino imprenditoriali, avvalendosi, se del caso, dell’opera degli appartenenti alla Congregazione. Si pone così il problema di qualificare l’attività svolta dal religioso e se la stessa possa o meno essere ascritta nel novero dei rapporti di lavoro, con tutto ciò che ne segue in ordine agli adempimenti amministrativi e previdenziali.
I soggetti ecclesiastici: cenni
Determinati soggetti ecclesiastici fruiscono nell’ordinamento dello Stato di una particolare condizione giuridica in ragione del ruolo religioso rivestito in seno alla propria confessione. La qualifica generale è quella di ministro di culto, con la quale vengono denominati coloro che, appartenenti a una qualsiasi confessione, sono titolari di potestà spirituali o di magisteri su una porzione di fedeli. Tali potestà vengono ovviamente certificate dall’ordinamento confessionale di rispettiva appartenenza.
In materia civile acquistano rilevanza anche altre qualifiche confessionali, tra le quali, per la Chiesa Cattolica, vengono in risalto quella di sacerdote e di religioso. Mentre il sacerdote è colui che, nell’ordinamento canonico, ha ricevuto l’Ordine Sacro, con la locuzione di religioso invece si indica la persona che, indipendentemente dall’essere o meno sacerdote, conduce una vita in comune nell’ambito dell’Istituto religioso con professione di voti pubblici di povertà, castità e obbedienza.
Va osservato che l’impedimento al matrimonio previsto dal canone 1088 del Codice di Diritto Canonico (abbreviato c.i.c. dal titolo latino codex iuris canonici) per chi è vincolato da voto solenne, se per un verso costituisce elemento qualificante dello status di religioso che dona totalmente la propria vita al servizio di Dio, per altro verso non assume rilevanza sul piano civile, nell’ambito del quale tuttavia la scelta appare comunque foriera di effetti in certa misura irreversibili.
E invero, premesso che lo ius poenitendi è immanente alla libertà religiosa, il cui esercizio consente al religioso di ricredersi rispetto a scelte precedentemente effettuate e quindi ad esempio di recedere dalla propria Congregazione di appartenenza per contrarre matrimonio concordatario, non sempre tuttavia tale ripensamento appare in grado di garantire al recedente una vita futura scevra da ricadute patrimoniali.
Il riferimento, in altre parole, riguarda le tutele che eventualmente spetterebbero al religioso per l’impegno profuso in favore della propria Congregazione durante l’impedimento votis.
Ben si intende infatti che laddove tale attività non dovesse essere ricondotta al concetto di rapporto di lavoro, il religioso, una volta esercitato lo ius poenitendi, non potrebbe confidare in alcun diritto retributivo e/o previdenziale.
A giudizio degli scriventi, il punto saliente di tutta la problematica è rappresentato dall’individuazione del limite che separa la prestazione del religioso, quale esercizio dell’opera di evangelizzazione e che costituisce lo scopo della Congregazione di appartenenza, dall’opera lavorativa strettamente intesa. In altri termini si tratta di capire quando finisca l’attività svolta per causa religiosa e quando invece la stessa venga effettuata con i crismi dell’onerosità che contrassegnano il rapporto di lavoro, poiché solo in tale ultimo caso potrà applicarsi la normativa giuslavoristica, ivi compresa quella concernente la formalizzazione del rapporto.
L’orientamento della giurisprudenza
La tematica è stata sottoposta allo scrutinio della Suprema Corte, che nell’occasione ha statuito che “l’attività didattica o sanitaria svolta dal religioso non alle dipendenze di terzi, ma nell’ambito della propria congregazione e quale componente di essa, secondo i voti pronunciati, non costituisce prestazione di attività di lavoro subordinato ai sensi dell’art. 2094 c.c., soggetta alle leggi dello Stato italiano, bensì opera di evangelizzazione religionis causa, in adempimento di fini della congregazione stessa, regolata esclusivamente dal diritto canonico, e quindi non legittima il religioso alla proposizione di domande dirette ad ottenere emolumenti che trovano la loro causa in un rapporto di lavoro subordinato con la precisazione che l’eccezione di illegittimità costituzionale di questa interpretazione dell’art. 2094 c.c., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 36 Cost., è manifestamente infondata, sia in quanto l’attività è resa in virtù di una libera scelta del religioso il quale, attraverso i voti di obbedienza, povertà e diffusione della fede, accetta di svolgerla senza un corrispettivo economico, sia in quanto il carattere di normale onerosità del rapporto di lavoro non riguarda le prestazioni svolte all’interno della comunità religiosa, sotto l’unico stimolo di principi morali, senza la tipica subordinazione e senza prospettive di retribuzione”.
A prima vista sembra che la S.C. ritenga decisivo per la verifica dell’eventuale sussistenza del rapporto di lavoro la posizione che occupa il religioso rispetto al soggetto che fruisce della prestazione. In tale senso pertanto occorre distinguere a seconda che il religioso presti la propria attività per l’Istituto di rispettiva appartenenza ovvero nei confronti di soggetti terzi.
Sicché ogni qualvolta che l’attività del religioso venga prestata all’interno dell’Istituto di appartenenza e per le finalità istituzionali dello stesso, si sarebbe in presenza, non di un rapporto di lavoro, bensì di un’opera di evangelizzazione, con la conseguenza che mancherebbe anche ogni presupposto idoneo all’insorgere di un rapporto previdenziale, come peraltro espressamente riconosciuto dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 108/77.
Diversamente, quando il religioso metta le proprie energie lavorative a disposizione di un soggetto terzo rispetto alla Congregazione di appartenenza, ricevendo da quest’ultima una controprestazione anche in denaro, si sarebbe in presenza di un rapporto di lavoro.
Considerazioni
In linea di principio il criterio appare condivisibile, anche se lo stesso non appare pienamente soddisfacente perché non sempre conduce a soluzioni corrette o quantomeno eque. Il riferimento è all’ipotesi in cui l’attività del religioso venga prestata in favore di un’Istituzione o Congregazione diversa rispetta a quella di effettiva appartenenza. In tale caso, infatti, un’applicazione rigorosa del parametro della terzietà porterebbe a qualificare tale attività come prestazione di lavoro, quando invece resta connotata verosimilmente da spirito di benevolenza.
Sicché a giudizio degli scriventi pare opportuno che la valutazione si fondi anche sulla conformazione oggettiva e professionale della prestazione resa dal religioso e dall’animus con la quale la stessa venga svolta.
Infatti quando si affrontano interessi che coinvolgono l’ambito religioso, premesso pur sempre un esame concreto della fattispecie, vige una presunzione di segno contrario rispetto a quella che caratterizza il rapporto di lavoro e che viene tradizionalmente definita con il termine di gratuità, ma per non generare equivoci sarebbe più pertinente qualificare tale attività con la locuzione benevolenza.
Ebbene, se si considera che la fattispecie tipica del rapporto di lavoro subordinato è caratterizzata dagli estremi della collaborazione, della subordinazione e dell’onerosità, deve conseguentemente ritenersi che la stessa non ricorre nel caso in cui una determinata attività, ancorché astrattamente configurabile quale prestazione di lavoro, non sia eseguita con spirito di subordinazione né in vista di adeguata retribuzione, ma "affectionis vel benevolentiae causa" o in omaggio a principi di ordine morale o religioso. Si tratta in tale senso di una prestazione che esula dal concetto di contratto di lavoro in senso tecnico perché svolta al di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale e sotto il solo stimolo di principi ed impulsi morali ed affettivi, alla cui ammissibilità non si oppone alcun principio di diritto costituzionale o comune.
Alla stregua di tali criteri non assume rilievo esclusivo, ai fini dell’accertamento della natura del rapporto, se l’attività del religioso sia svolta o meno per un soggetto terzo rispetto alla Congregazione di appartenenza del religioso, né a maggior ragione se la prestazione medesima si incardini nell’ambito di strutture commerciali gestite in via marginale dalla stessa Congregazione, poiché ciò che assume valenza, semmai, è la conformità dell’opera prestata dal religioso ai compiti di sua pertinenza in forza della pronuncia dei voti. Tale aspetto ovviamente sfuma e viene mitigato se l’attività del religioso viene prestata con crismi di professionalità per un’impresa terza rispetto all’Istituto confessionale di appartenenza e che abbia per oggetto scopi non morali, poiché in tal caso l’analisi complessiva delle circostanze porta tendenzialmente a ricondurre la prestazione nell’alveo del rapporto di lavoro tecnicamente inteso.
In sintesi, l’esame dell’opera del religioso è più complessa rispetto ad una valutazione che si fondi unicamente sul parametro della terzietà del beneficiario della prestazione. Infatti, se si esclude l’ipotesi dell’opera resa dal religioso per la propria Congregazione, la quale appare senz’altro non ascrivibile al concetto di lavoro, la terzietà del beneficiario della prestazione, la natura imprenditoriale o meno dell’attività da quest’ultimo svolta e il contenuto professionale dell’opera resa dal religioso costituiscono tutti elementi oggetto di ponderazione ai fini della qualificazione dell’attività in termini lavorativa.
Alla luce di tali premesse si può passare all’esame del caso concreto.
Il caso concreto
L’Istituto “Sacro Cuore” persegue finalità prevalentemente religiose accompagnate anche da una gestione diretta di marginali attività commerciali, quali un negozio di souvenir, attività di guida turistica nonché di affitta camere per turisti. Tizio, dopo aver condotto gran parte della propria vita al servizio dell’Istituto religioso “Sacro Cuore” avendo emesso il voto di professare in forma speciale i consigli evangelici di castità, povertà e obbedienza, decide di recedere dalla propria scelta e di abbandonare la Congregazione di appartenenza e di tornare a una vita laica. Una volta spogliatosi dell’abito religioso, Tizio ha preso atto di non aver alcuna tutela previdenziale e retributiva.
Tizio si è così recato alla DTL di competenza per chiedere delucidazioni in ordine alla propria posizione, rappresentando di aver svolto nel corso del proprio cammino di fede plurime attività in favore dell’Istituto “Sacro Cuore”, tra le quali anche quelle commerciali sopra menzionate. Tizio ha concluso chiedendo al personale ispettivo l’accertamento in ordine alla sussistenza di un rapporto di lavoro con connessa tutela retributiva e previdenziale.
In base ai presupposti fattuali sopra esposti appare verosimile ritenere che il personale ispettivo concluda le proprie considerazioni nel senso di ritenere insussistente il rapporto di lavoro di Tizio con l’Istituto religioso “Sacro Cuore”.
L’opera di Tizio, infatti, in quanto prestata per la propria Congregazione assume rilievo, sotto il profilo oggettivo e finalistico, come assolvimento dei compiti di rispettiva pertinenza in forza della pronuncia dei voti di povertà e conseguentemente non costituisce affatto attività di lavoro.
L’opera infatti è espressiva del legame spirituale che avvolge il religioso alla Comunità di appartenenza. In tale senso l’eventuale sottoposizione del religioso alle disposizioni dell’Istituto è espressiva non di un adempimento di obbligo civilmente rilevante, bensì quale debito di obbedienza ai voti pronunziati.
La circostanza che l’opera sia svolta anche per le attività commerciali gestite direttamente dall’Istituto non pare possa comportare conseguenze di rilievo e suscettibili di infrangere il carattere morale della prestazione, come invece sarebbe prospettabile se l’attività di Tizio fosse stata resa in via professionale per un’impresa commerciale terza alla Congregazione.
Ne segue in sostanza che la richiesta di Tizio appare meritevole di archiviazione.
NOTE
i Vengono in rilievo anche le figure del chierico, del diacono, parroco, vescovo per le quali si rinvia alla disciplina canonistica.
ii Così il voto di obbedienza non comporta alcuna incapacità dispositiva, sicché anche il religioso sul piano civile può compiere atti negoziali come a es. un atto di compravendita.
iii Cass. civ. Sez. lavoro, 07/11/2003, n. 16774.
iv Cass. civ. Sez. lavoro, 02/12/2002, n. 17096.
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