Licenziamento illegittimo, indennizzo Jobs Act inadeguato
Pubblicato il 08 marzo 2021
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La tutela apprestata in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo di lavoratori assunti presso aziende di piccole dimensioni – vale a dire le aziende che non raggiungono le soglie dimensionali fissate dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori - a seguito della recente riforma del diritto del lavoro del Jobs Act e che prevede una indennità fra 3 e 6 mensilità non soddisfa i principi costituzionali e sovranazionali. E' quanto ha dichiarato il Tribunale di Roma, II sezione lavoro e previdenza, con ordinanza del 24 febbraio 2021.
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e revoca
Una maestra d'inglese, dipendente a tempo indeterminato, ha svolto attività lavorativa presso la scuola d'infanzia e la scuola primaria gestita dalla società datrice di lavoro.
Licenziata per giustificato motivo oggettivo (i.e. riorganizzazione aziendale) ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604/1966, aveva impugnato il licenziamento, dichiarandosi disponibile alla ripresa del servizio.
Successivamente la datrice di lavoro aveva comunicato la revoca del licenziamento invitando la dipendente alla ripresa del servizio alle stesse condizioni contrattuali precedentemente applicate.
La lavoratrice dichiarava la revoca tardiva e quindi inefficace e proseguiva nell'impugnativa del licenziamento.
Adito il Tribunale territorialmente compente, la ricorrente dichiarava insussistenti e infondate le motivazioni poste alla base del licenziamento per i seguenti motivi:
- la dedotta riorganizzazione aziendale non era supportata da una concreta verifica di ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale, apparendo pertanto più una mera petizione di principio;
- il posto di lavoro non era stato soppresso;
- non c'era stato alcun ridimensionamento aziendale in quanto il personale risultava invariato;
- le classi ove lavorava la ricorrente erano aumentate nel tempo e in ciascuna di esse era stato impiegato nuovo personale;
- nella scelta dei dipendenti da licenziare non si erano applicati i criteri si scelta dei lavoratori posti dall'art. 5 della legge n. 223/1991.
Illegittimità del recesso intimato dal datore di lavoro
La lavoratrice esponeva che il giustificato motivo addotto dal datore di lavoro era del tutto insussistente e che la revoca del licenziamento era tardiva e inefficace. In aggiunta si rilevava che:
- il rapporto di lavoro era sorto dopo il 7 marzo 2015;
- allo stesso si applicava la disciplina delle tutele crescenti del Jobs Act (D.Lgs. 23 del 2015, in particolare gli artt. 3 e 9):
- trattandosi di impresa priva dei requisiti di cui all'art. 18, comma 8 e 9 della legge n. 300/1970, qualora la domanda fosse accolta, l'indennizzo non avrebbe potuto superare le 6 mensilità dell'ultima retribuzione percepita.
Si chiedeva conseguentemente che venisse accertata la non ricorrenza del giustificato motivo e/o la violazione del requisito di motivazione e che venisse dichiarato risolto il rapporto di lavoro con condanna de datore di lavoro al pagamento delle indennità di cui all'art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015.
Al Giudice adito la ricorrente chiedeva da ultimo di sollevare questione di costituzionalità della predetta norma alla stregua delle previsioni di cui agli artt. 3, comma 1, 4 e 35 comma1, Cost. nonchè dell'art. 117, comma 1, Cost. in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea.
La società datrice di lavoro resta contumace.
Rilevanza della questione di legittimità costituzionale
In ordine alla questione di merito, il Tribunale rileva che è pienamente dimostrata la sussistenza del rapporto di lavoro, che il licenziamento intimato per giustificato è illegittimo perchè non ne è stato provato il fondamento e che lo stesso deve essere sanzionato secondo l'art. 3, comma 1 e art. 9, comma 1 del decreto legislativo n. 23/2015.
Alla luce delle predette conclusioni, il Giudice conferma la rilevanza della questione di costituzionalità di cui all'art. 3 e all'art. 9 del decreto legislativo n. 23/2015, che reputa degna di approfondimento.
Indennità risarcitoria "dimezzata" per le piccole imprese
L'art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 23/2015 (Piccole imprese e organizzazioni di tendenza) appronta le tutele per i dipendenti dei datori di lavoro che non raggiungono i requisiti di cui all'art. 18, comma 8 e 9 della legge n. 300/1970. Si tratta, in particolare, dei datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 lavoratori, o più di 5 se si tratta di imprenditore agricolo, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di 60 dipendenti.
Per questi dipendenti non trova inoltre applicazione l'art. 3, comma 2 del D.Lgs. n. 23 del 2015 e quindi, a fronte di un licenziamento ingiustificato, trova applicazione la sanzione costituita da una indennità risarcitoria.
La misura di tale indennizzo, nel caso di specie, va individuata nello "stretto varco" risultante fra il minimo di 3 e il massimo di 6 mensilità secondo i parametri indicati nella sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2018 e confermati nella sentenza n. 150 del 2020 (anzianità di servizio del lavoratore, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, comportamento e condizioni delle parti).
In pratica, si può affermare che la tutela prevista dall'art. 9, comma 1, D.lgs. 23/2015 riguarda i lavoratori dipendenti da datori di lavoro individuati esclusivamente sulla base del numero dei dipendenti occupati e prevede unicamente una soluzione indennitaria che può essere determinata nello strettissimo intervallo fra 3 e 6 mensilità.
Inadeguatezza dissuasiva del ristoro
La tutela apprestata per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro sotto-soglia si presenta irragionevole per l'estrema esiguità della tutela che non può superare le 6 mensilità e non prevede neanche l'alternativa della riassunzione.
Si tratta di una misura che non garantisce, come rilevato dalla Corte Costituzionale, l'"adeguato contemperamento degli interessi in conflitto" ovvero "la libertà di organizzazione dell'impresa da un lato e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato dall'altro".
Nel contemperamento degli interessi, argomenta il Tribunale, non solo occorre garantire un adeguato ristoro per il pregiudizio patito dal lavoratore ma anche correggere il disequilibrio di fatto esistente nel contratto di lavoro dissuadendo la parte più forte, ossia il datore di lavoro, anche se impresa minore, dall'adottare un licenziamento ingiustificato che gli costerebbe un'esigua indennità.
Giusto riprendere, a supporto delle argomentazioni illustrate, i principi contenuti nell'art. 24 della Carta Sociale Europea ove si fa esplicito riferimento al "diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione" e nella giurisprudenza del Comitato Europeo dei diritti sociali secondo cui il risarcimento per il licenziamento illegittimo deve essere allo stesso tempo proporzionato rispetto alla perdita sofferta dalla vittima e sufficientemente dissuasivo per i datori di lavoro.
Pertanto, sulla scorta di tali considerazioni, la disposizione di cui all'art. 9 del D. Lgs n. 23 del 2015 risulta palesemente viziata per incostituzionalità nella parte in cui determina un limite massimo inadeguato e per nulla dissuasivo in caso di licenziamento ingiustificato comminato da un datore di lavoro che non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all'art. 18, ottavo e nono comma, della legge n. 300 del 1970.
Alla luce di ciò, si può affermare che il criterio di determinazione dell'indennità risarcitoria prevista dall'art. 9, comma 1, D.Lgs. 23/2015 non può soddisfare il test di adeguatezza alla stregua dei principi costituzionali e sovranazionali.
Viene dichiarata rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 1 del decreto legislativo n. 23 del 2015 e si dispone la sospensione del giudizio, ordinando l'invio degli atti alla Corte Costituzionale.
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