Licenziamenti economici. Reintegra per insussistenza del fatto anche non manifesta
Pubblicato il 19 maggio 2022
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Ultima decisione della Corte costituzionale in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo connesso a ragioni economiche, produttive e organizzative: per applicare la tutela ex articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, non occorre accertare che l'insussistenza del fatto alla base del licenziamento economico sia "manifesta".
La Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, settimo comma, secondo periodo, della Legge n. 300/1970, come modificato dalla Riforma Fornero, limitatamente alla parola "manifesta".
E' stato il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, a sollevare questioni di legittimità costituzionale della predetta norma, censurata nella parte in cui prevede che, in caso di insussistenza del fatto, per disporre la reintegra occorra un quid pluris rappresentato dalla dimostrazione della “manifesta insussistenza del fatto stesso", posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Consulta in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo
Con sentenza n. 125 del 19 maggio 2022, la Corte costituzionale ha ritenuto fondati i rilievi formulati dal giudice rimettente in relazione all’art. 3 della Costituzione.
Per come affermato più volte dalla Consulta, il diritto del lavoratore di non essere ingiustamente licenziato si fonda sui principi enunciati dagli articoli 4 e 35 della Costituzione e sulla speciale tutela riconosciuta al lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
L’attuazione di tali principi - hanno precisato i giudici costituzionali - è demandata alle valutazioni discrezionali del legislatore, chiamato ad apprestare un equilibrato sistema di tutele.
Questi, nell'ambito del margine di apprezzamento di cui dispone, è tuttavia vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza: la diversità dei rimedi previsti deve sempre essere sorretta da una giustificazione plausibile e deve assicurare l’adeguatezza delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso.
Essenziale, nell’attuazione dei ricordati principi, è il compito del giudice, tenuto "a ponderare la particolarità di ogni vicenda e a individuare di volta in volta la tutela più efficace, sulla base delle indispensabili indicazioni fornite dalla legge".
Orbene, secondo i giudici costituzionali, la disciplina censurata si pone in contrasto con i principi appena richiamati.
Per la tutela ex art. 18 non serve che l'insussistenza del fatto sia "manifesta"
Nell’ambito del licenziamento economico, infatti, il richiamo all’insussistenza del fatto vale di per sé a circoscrivere la reintegrazione ai vizi più gravi, concernenti il nucleo stesso e le connotazioni salienti della scelta imprenditoriale di recesso.
In tale contesto, la previsione del carattere manifesto dell'insussistenza del fatto presenta profili di irragionevolezza intrinseca.
In primo luogo, il requisito del carattere manifesto è indeterminato, risultando problematico, nella prassi, individuare il discrimine tra l’evidenza conclamata del vizio e l’insussistenza pura e semplice del fatto.
Esso, ciò posto, si presta a incertezze applicative e può condurre a soluzioni difformi, con conseguenti ingiustificate disparità di trattamento.
Il medesimo requisito, inoltre, demanda al giudice una valutazione "sfornita di ogni criterio direttivo e priva di un plausibile fondamento empirico".
Per la Consulta, "la sussistenza di un fatto non si presta a controvertibili graduazioni in chiave di evidenza fenomenica, ma evoca piuttosto una alternativa netta, che l’accertamento del giudice è chiamato a sciogliere in termini positivi o negativi".
Senza contare che il predetto criterio "risulta eccentrico nell’apparato dei rimedi, usualmente incentrato sulla diversa gravità dei vizi e non su una contingenza accidentale, legata alla linearità e alla celerità dell’accertamento".
In definitiva, un sistema così congegnato, che fa leva - come detto - su un criterio indeterminato e per di più svincolato dal disvalore dell’illecito, comporta un aggravio irragionevole e sproporzionato al processo e vanifica l’obiettivo della rapidità e della più elevata prevedibilità delle decisioni, finendo anche "per contraddire la finalità di una equa redistribuzione delle tutele dell’impiego".
Da qui, la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma censurata, limitatamente alla parola "manifesta".
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