Le novità in materia di inidoneità sopravvenuta del lavoratore e obblighi datoriali

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Il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive per cui all’obbligo datoriale di retribuire il lavoratore corrisponde l’obbligo di quest’ultimo di mettere a disposizione dell’imprenditore le sue energie lavorative.

Conseguentemente, per giurisprudenza, al rapporto sinallagmatico in questione sono applicabili i principi dettati in via generale per ogni tipo di contratto dagli articoli 1256, 1463 e 1464 c.c., in forza dei quali:

- l’obbligazione si estingue quando per una causa non imputabile al debitore la prestazione diventa impossibile (da qui l’automatica risoluzione del contratto);

- in caso di sopravvenuta impossibilità totale, la parte liberata non può chiedere la controprestazione e deve restituire quanto già ricevuto;

- in caso di impossibilità parziale di un contraente, l’altra parte ha diritto a una corrispondente riduzione della sua prestazione e può recedere dal contratto quando non abbia un interesse apprezzabile all’adempimento parziale.

Prima del 1998

Stante quanto sopra, fino al 1998 la giurisprudenza maggioritaria sosteneva che il datore di lavoro potesse recedere dal contratto nel caso in cui il lavoratore, per motivi di salute, non riuscisse più a garantire la qualità o quantità della prestazione pattuita al momento dell’assunzione, senza che in capo all’imprenditore incombesse alcun obbligo di provare ad impiegare il prestatore di lavoro in altre mansioni all’interno dell’azienda.

Il licenziamento diventava quindi legittimo non solo in caso di impossibilità lavorativa totale, ma anche qualora, in presenza di impossibilità parziale, veniva meno l’interesse apprezzabile del datore all’adempimento contrattuale perché la collocazione del lavoratore non era più conciliabile con l’organizzazione aziendale.

La svolta del 1998

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, con sentenza n. 7755/1998, ha affermato che la sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento solo perché non sia più eseguibile l’attività al momento svolta dal prestatore di lavoro, ma è necessario che al lavoratore non sia possibile assegnare nessun’altra attività riconducibile anche a mansioni equivalenti a quelle svolte o, se questo è impossibile, a mansioni inferiori.

Tuttavia la prestazione, per la Cassazione, deve sempre essere utilizzabile dall’impresa secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

Quindi dal 1998, il datore di lavoro che abbia alle proprie dipendenze un lavoratore divenuto inidoneo alla mansione svolta, ha l’obbligo di adibirlo a mansioni equivalenti o inferiori, purché ciò non comporti un aggravio organizzativo e/o finanziario.

A tal proposito la dottrina ha sempre sostenuto che con la sentenza in questione è nato per l’imprenditore l’obbligo di “cercare”, all’interno della propria azienda, un posto per il lavoratore divenuto inidoneo, e non un obbligo di “trovare” una mansione cui adibirlo, intendendo in tal senso un obbligo di creare un posto ad hoc.

Sulla sentenza sopracitata si innesta, poi, un filone interpretativo che trova la massima espressione nella sentenza della stessa Corte, n. 10339/2000, in cui è stato sostenuto che non appare configurabile un onere dell’imprenditore di adottare nuove tecnologie o modificare l’assetto organizzativo per poter ricollocare il lavoratore nell’impresa.

In quest’ultima sentenza citata, gli Ermellini sono arrivati a sostenere che il datore non è obbligato ad acquistare mezzi ad hoc offerti da nuove tecnologie per venire incontro alle esigenze del lavoratore, in quanto l’imprenditore non ha l’obbligo di cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti affetti da infermità che vada oltre il dovere di garantire l’obbligo di sicurezza imposta dalle norme sulla salute e sicurezza sul lavoro (D.Lgs. n. 81/2008).

In pratica l’art. 2087 c.c. e il Testo unico sulla sicurezza e salute obbligano il datore di lavoro a garantire, per l’appunto, la sicurezza del lavoratore ma non lo obbligano a sopperire alla riduzione della capacità lavorativa del soggetto divenuto inidoneo.

Chiaramente grava sul datore di lavoro l’onere della prova di dimostrare l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altra attività riconducibile alle stesse mansioni già svolte o a mansioni equivalenti e, se ciò sia impossibile, a mansioni inferiori, compatibilmente con l’assetto organizzativo dell’impresa (Cass. n. 7755/1998), ma a condizione che il lavoratore abbia manifestato la propria disponibilità ad accettare le diverse mansioni (ex multis: Cass. n. 5112/2007; Cass. 18387/2009).

Diverso è, ad ogni modo, il caso in cui l’impossibilità sopravvenuta determini solo una difficoltà di svolgimento delle mansioni precedentemente espletate, superabile mediante l’adozione di diverse modalità di esecuzione del lavoro, compatibili con l’organizzazione aziendale (Cass., n. 8152/1993).

La novità

La Corte di Giustizia UE (Causa C-312/11), nel luglio 2013, ha condannato l’Italia per non aver imposto a tutti i datori di lavoro di prevedere, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, soluzioni ragionevoli applicabili a tutti i disabili, venendo meno all’obbligo di recepire correttamente e completamente l’articolo 5 della Direttiva 2000/78/CE che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

A seguito di tale condanna, l’art. 9 comma 4-ter, D.L. n. 76/2013, convertito dalla Legge n. 99/2013, ha inserito il nuovo comma 3-bis nell’art. 3 del D.Lgs. n. 216/2003, in virtù del quale – per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità con gli altri lavoratori - i datori di lavoro sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro.

Quindi, allo stato attuale delle cose non è più licenziabile un lavoratore divenuto inabile qualora nell’azienda non sia disponibile una mansione, anche inferiore, cui adibirlo, senza l’obbligo per il datore di sopportare alcun onere.

Con la nuova normativa, incombe sull’imprenditore un obbligo di prendere i provvedimenti più appropriati, in relazione alle esigenze concrete, per consentire al disabile di svolgere il proprio lavoro, purché l’onere da sostenere non sia sproporzionato.

Conseguentemente il datore deve, adesso, sopportare un onere per cooperare all’accettazione della prestazione lavorativa di soggetti divenuti infermi, e tale obbligo si arresta solo dinanzi alla sproporzione finanziaria che dovrà essere valutata caso per caso in funzione della dimensione dell’azienda e delle sue possibilità economiche.

Chiaramente spetta sempre al datore di lavoro l’onere della prova circa l’impossibilità del cosiddetto “ragionevole adattamento”.

In merito si sottolinea, inoltre, che, poiché l’art. 5 della Direttiva 2000/78/CE obbliga i datori di lavoro a prendere i provvedimenti appropriati per consentire ai disabili l’accesso al lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione, di ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano un onere finanziario sproporzionato, il principio di adattamento ragionevole deve essere preso in considerazione anche nel momento dell’incontro fra domanda ed offerta di lavoro.

Non a caso, il Tribunale di Bologna, con ordinanza n. 171 del 18 giugno 2013, ha accolto il ricorso di un infermiere vincitore di concorso il quale non era stato assunto dall’Azienda Ospedaliera di Bologna perché risultato inidoneo a svolgere i turni notturni alla visita medica di idoneità, a causa di epilessie notturne.

Nel caso di specie, per il giudice, l’ASL aveva l’obbligo di adattamento ragionevole e, quindi, doveva assumere l’infermiere e farlo lavorare solo di giorno, tanto più che l’onere non era sproporzionato o eccessivo perché la tipologia dell’assunzione (un contratto a termine per sei mesi) ed il contesto lavorativo (un’ASL con 4.000 dipendenti come personale ospedaliero) poteva permettere all’azienda di organizzare i turni del lavoratore su 12 ore con una ricaduta sui colleghi contenuta.

Il concetto di handicap cui applicare la nuova norma

Il fatto che la nuova norma parli di obbligo di adattamento ragionevole per assicurare la parità di trattamento dei lavoratori “disabili” non deve, però, far pensare che il dettato legislativo sia applicabile solo a particolari soggetti, come ad esempio i lavoratori rientranti nell’ambito di applicazione della Legge n. 68/1999 o della Legge n. 104/1992.

Infatti, come chiarito dalla Corte di Giustizia UE, nella sentenza del 4.7.2013, in cui l’Italia è stata condannata, alla luce della Convenzione dell’ONU sui diritti delle persone con disabilità, tale nozione si riferisce ad una limitazione risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possano ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori.

Quindi l’obbligo di adattamento ragionevole del luogo di lavoro sussiste anche in tutti i casi in cui il lavoratore diventi inidoneo alla mansione svolta, per conseguenze dello stato di salute, in pratica a causa di una malattia o patologia, diagnosticata come curabile o incurabile, che ne limiti l’effettiva partecipazione alla vita professionale.

A sostegno di quanto affermato si evidenzia che la Corte di Giustizia UE, nella sentenza dell’11 aprile 2013, cause C-335/11 e C-337/11, ha ritenuto applicabile l’art. 5 della Dir. 2000/78/CE (recepita dal nuovo art. 3, comma 3-bis, D.Lgs. n. 216/2003), al caso di due lavoratrici danesi che chiedevano la trasformazione del loro rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time perché affette da dolori cronici non trattabili, non riconosciute portatrici di handicap dalla loro normativa nazionale.

Norme e prassi 

Articoli 1256, 1463, 1464 e 2087 c.c.

Direttiva 2000/78/CE, articolo 5

Legge n. 104/1992

Legge n. 68/1999

D.Lgs. n. 216/2003, art. 3, comma 3-bis

D.Lgs. n. 81/2008

D.L. n. 76/2013, art. 9 comma 4-ter, convertito dalla Legge n. 99/2013

Corte di Cassazione, sentenza n. 8152/1993

Corte di Cassazione a Sezioni Unite, sentenza n. 7755/1998

Corte di Cassazione, sentenza n. 10339/2000

Corte di Cassazione, sentenza n. 5112/2007

Corte di Cassazione, sentenza n. 18387/2009

Corte di Giustizia UE, cause C-335/11 e C-337/11, sentenza 11 aprile 2013

Tribunale di Bologna, ordinanza n. 171 del 18 giugno 2013

Corte di Giustizia UE, causa C-312/11, sentenza del 4 luglio 2013
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