La clausola sociale, opponibilità e limiti della contrattazione collettiva

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La clausola sociale, opponibilità e limiti della contrattazione collettiva

Il fenomeno dei cambi di appalto o successione negli appalti ha notoriamente incontrato l’esigenza di tutelare i livelli occupazionali e di protezione del personale impiegato e la libertà dell’impresa subentrante di poter gestire in piena autonomia l’organizzazione dell’affidamento.

Diversamente dal settore degli appalti pubblici, nei rapporti tra privati la regolamentazione della successione degli appalti per i lavoratori dipendenti ivi impiegati è affidata, al netto di eventuali specificazioni contenute nel contratto di appalto, alla regolamentazione della contrattazione collettiva.

La disciplina legislativa appare, invece, piuttosto scarna, sicché la successione dei rapporti di lavoro dipendente da un appaltatore ad un altro – rimanendo nell’ambito di committenti privati – è contemplata solo dal rivisitato comma 3, art. 29, decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, secondo cui l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda.

Il passaggio ex novo dei dipendenti in forza nell’appalto è, dunque, affidato alla contrattazione collettiva di categoria che, tuttavia, sconta i propri limiti nel momento in cui la disciplina delle c.d. clausole sociali rimane all’interno di logiche civilistiche, opponibili solo a soggetti che aderiscono o applicano medesime o analoghe discipline contrattuali.

Cambio appalto o trasferimento d’azienda?

L’appalto è un contratto di risultato con il quale una parte assume (c.d. appaltatore), con organizzazione di mezzi e con gestione a proprio rischio, l’obbligazione di compiere un’opera o di un servizio a favore dell’altra parte (c.d. appaltante o committente) dietro corresponsione di un corrispettivo. Tale definizione, prevista dall’art. 1655, Codice Civile, sfocia nella disciplina giuslavoristica contenuta nel sopracitato decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che si occupa, perlopiù, di definirne le differenze dalla somministrazione di manodopera, i caratteri della responsabilità solidale tra appaltatore e committente ovvero con ciascuno dei subappaltatori, relativamente ai profili retributivi e contributivi dei lavoratori impiegati nell’appalto, nonché – anche su impulso dell’Unione Europea – a definirne l’alveo di applicabilità, nella successione di contratti d’appalto, della disciplina tipica del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, contenuta nell’art. 2112, Codice Civile.

In entrambe le fattispecie – sia per il trasferimento d’azienda che per il cambio d’appalto – vi è la convergente tutela della salvaguardia dei rapporti di lavoro e del mantenimento dei livelli occupazionali e, in entrambe le operazioni citate, vi è un mutamento del datore di lavoro con correlata migrazione di lavoratori. Sussistono però alcune sostanziali differenze che devono essere ben osservate per distinguere gli effetti ricadenti sui rapporti di lavoro.

Si noti che l’art. 2112, Codice Civile, rubricato Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda, sancisce un obbligo – salvo casi specifici – di continuazione del rapporto di lavoro con il cessionario e garantendo specifiche ulteriori possibilità di tutela per i lavoratori (es. dimissioni entro tre mesi a seguito di trasferimento d’azienda).

L’art. 29, decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, invece, non fissa un generale obbligo di riassunzione del personale impiegato nell’appalto, demandando alla contrattazione collettiva o al contratto d’appalto la regolamentazione di tali aspetti, salvo nei casi in cui – in presenza di specifici elementi – non possa ravvisarsi la tutela tipica del trasferimento d’azienda e contenuta nell’art. 2112, Codice Civile.

In particolare, il predetto art. 29 è stato “recentemente” rivisitato dall’art. 30, comma 1, legge 7 luglio 2016, n. 122, che ha adeguato la disciplina previgente ai principi contenuti nella Direttiva n. 2001/23/CE del 12 marzo 2001, relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori nelle ipotesi di trasferimenti d’azienda. Al fine di evitare la intimata procedura di infrazione della Commissione Europea, il legislatore italiano ha modificato l’originaria versione dell’art. 29 che vedeva sic et simpliciter l’inapplicabilità, nei casi di successione di appalto, delle tutele di cui all’art. 2112, Codice Civile.

A seguito delle modifiche operate, invece, affinché si escluda la continuità automatica dei rapporti di lavoro in essere, devono essere necessari due elementi:

  • le qualità soggettive del subentrante, quale impresa strutturata ed operante nel momento del cambio di appalto e non meramente strumentale al cambio d’appalto;
  • l’oggettiva discontinuità imprenditoriale, tali da determinare un’identità di impresa specifica.

Quanto al primo requisito non vi sono particolari difficoltà di reperimento. Invero, appare sufficiente dimostrare che il soggetto subentrante sia dotato di un’autonoma organizzazione imprenditoriale e produttiva, con conseguente assunzione del rischio d’impresa, talché, sostanzialmente, sia possibile escludere fattispecie illecite di somministrazione di manodopera.

Il secondo, invece, pone maggiori difficoltà, laddove vengono richiesti “elementi di discontinuità che determinino una specifica identità d’impresa”, specie nei c.d. appalti labour intensive.

In particolare, nel caso in cui un’entità economica sia in grado di operare senza elementi patrimoniali significativi, materiali o immateriali, la conservazione della sua identità non può dipendere dalla cessione di tali elementi, sicché nei settori in cui l’attività si fonda essenzialmente sulla mano d’opera, ben può un gruppo di lavoratori occupati stabilmente all’attività comune corrispondere ad un’entità economica. In tal senso, i criteri cardine della configurazione del trasferimento d’azienda – cioè la cessione o meno di elementi materiali, la riassunzione della maggior parte del personale, il trasferimento della clientela, etc. – sono tutti elementi che devono essere necessariamente valutati in funzione dell’attività esercitata o, addirittura, in funzione dei metodi di produzione o di gestione utilizzati nell’impresa.

Nelle ipotesi di attività economiche c.d. labour intensive, in cui la manodopera presentata caratteri preminenti per l’esercizio dell’attività affidata, la circostanza che assume maggior rilievo ai fini della conservazione dell’identità economica può essere rappresentata dalla riassunzione o meno della maggior parte del personale ad opera del subentrante.

Per tali tipi di servizi, il trasferimento d’azienda si può configurare anche in presenza del passaggio di un gruppo organizzato di lavoratori e, dunque, del know-how organizzativo ed operativo. È possibile affermare che nel cambio appalto non si configura un trasferimento d’azienda quando l’attività esercitata dall’appaltatore subentrante ha, rispetto a quella svolta dall’impresa uscente, una specifica identità determinata da elementi presenti nella struttura organizzativa ed operativa che si pongono in discontinuità con quella in uso dall’impresa uscente.

Come chiarito anche dalla Corte di Cassazione nell’ordinanza 20 gennaio 2022, n. 1181, occorre distinguere le fattispecie di successione di un imprenditore ad un altro, nell’ambito di un appalto di servizi, ed il trasferimento d’azienda, in quanto fattispecie non automaticamente sovrapponibili, perché la prima integra la seconda, regolata dall’art. 2112 c.c., soltanto qualora sia accertato in concreto il passaggio di beni di non trascurabile entità, nella loro funzione unitaria e strumentale all’attività d’impresa, o almeno del know how o di altri caratteri idonei a conferire autonomia operativa ad in gruppo di dipendenti. La Suprema Corte ha, altresì, ribadito – confermando i precedenti orientamenti – che in caso di successione di un imprenditore ad un altro in un appalto di servizi, non sussiste un diritto dei lavoratori licenziati dall’appaltatore al trasferimento automatico all’impresa subentrante, occorrendo procedure al suddetto accertamento (così anche Cass. n. 24972/2016; Cass. n. 8922/2019).

Nei casi in cui vi sia un significativo passaggio di beni o risulti l’avvenuto trapasso di elementi significativi per la gestione del servizio medesimo corredato da un trasferimento di lavoratori che per capacità e competenze siano in grado di svolgere autonomamente le proprie funzioni potrà sussistere la configurazione di un autonomo ramo d’azienda, talché – conseguentemente – sarà possibile affermare di non trovarsi più innanzi ad una mera successione di appaltatore ma ad un’articolazione autonoma di un’attività economica organizzata che, in quanto tale, godrà delle tutele di cui all’art. 2112, Codice Civile.

Cambio appalto e limiti della “clausola sociale”

Nelle successioni di appalti – specie in quelli ad alta intensità di manodopera – occorre, giacché non facilmente perseguibile in concreto, distinguere se si è in presenza di un trasferimento d’azienda, con conseguente tutela prevista dall’art. 2112, Codice Civile, ovvero di una nuova entità organizzativa.

Laddove, con presumibile certezza, non vi siano i presupposti per l’applicazione delle citate tutele, la successione dei rapporti di lavoro nei cambi d’appalto è affidata alla contrattazione collettiva ovvero alle c.d. clausole di protezione eventualmente presenti nel contratto d’appalto.

In molti contratti collettivi nazionali è, oggi, disciplinata – in più svariate forme – una clausola che tenta di garantire le medesime tutele previste dall’art. 2112, Codice Civile, alle ipotesi di cambio appalto (c.d. clausola sociale; clausola di riassorbimento; clausola di protezione; clausola di salvaguardia sociale; etc.).

I meccanismi maggiormente regolamentati prevedono, ad esempio, il mantenimento dei medesimi livelli occupazionali in essere presso l’appaltatore uscente, il mantenimento delle medesime condizioni economiche e contrattuali, una tutela per i soli lavoratori che vantano un’anzianità minima nell’appalto, piuttosto che l’obbligo di attivazione di particolari procedure sindacai o il sorgere di obblighi di riassorbimento solo al superamento di specifiche soglie di lavoratori coinvolti.

L’obbligo di riassunzione del personale da parte dell’appaltatore subentrante è conseguente ad un obbligo scaturente da una disposizione di legge, di contratto collettivo o di clausola inserita nel nuovo contratto d’appalto.

Nel caso in cui, dunque, la riassunzione dei lavoratori in forza venga demandata a quanto stabilito dalle parti sociali, la clausola di riassunzione trova i propri limiti nella libera scelta contrattuale dell’imprenditore subentrante. Si noti, invero, che non è raro che l’impresa subentrante decida di non assorbire il personale dell’impresa uscente per via di una mancata disciplina regolatoria del CCNL ovvero di una disciplina non analoga a quella contenuta nel CCNL dell’appaltatore uscente.

D’altronde, a parere di chi scrive, appare pacifico che gli obblighi dettati da clausole sociali rimangono all’interno di logiche civilistiche e, com’anche espresso dal Ministero del Lavoro, nell’interpello 1° agosto 2012, n. 22, hanno un’efficacia soggettivamente limitata, sicché garantiscono ai lavoratori una continuità nel rapporto di lavoro solo quando anche l’impresa subentrante applica lo stesso contratto collettivo dell’impresa uscente o altro contratto che contempli analogo obbligo.

Tali clausole previste dal CCNL dell’impresa uscente risultano, dunque, opponibili esclusivamente all’imprenditore subentrante che sottoscriva o applichi, tanto per affiliazione sindacale quanto per adesione volontaria, un contratto collettivo che, quantomeno, contenga analogo obbligo.

Nell’ambito dei rapporti civilistici, infatti, il contratto applicato dell’impresa uscente non può esperire i suoi effetti nei confronti della subentrante comportando un automatico diritto dei lavoratori alla riassunzione.

QUADRO NORMATIVO

Decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276

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