Insubordinazione e minaccia grave: sì al licenziamento
Pubblicato il 25 gennaio 2024
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L'accertamento della concreta ricorrenza degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito.
Tale giudizio è sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards", conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale.
E' il principio ribadito dalla Corte di cassazione con ordinanza n. 1686 del 16 gennaio 2024, nel confermare una decisione di merito pronunciata dalla Corte d'appello nell'ambito di una causa di opposizione a licenziamento disciplinare.
Nel caso in esame, il ragionamento della Corte territoriale non si era limitata al solo profilo della sussunzione della condotta addebitata nelle fattispecie astratte di illecito disciplinare.
Con un giudizio di fatto, esente da vizi motivazionali e, pertanto, insindacabile in sede di legittimità, aveva anche riconosciuto la sussistenza degli elementi che integravano il parametro normativo della giusta causa, secondo gli standards conformi ai valori dell’ordinamento per un grave inadempimento o un grave comportamento del lavoratore contrario alle regole dell’etica e del comune vivere civile.
Accuse gravi e infondate con fine ricattatorio: licenziamento legittimo
La Corte territoriale, nella specie, aveva rigettato i motivi con cui una lavoratrice aveva impugnato la sanzione espulsiva comminatale dalla società datrice di lavoro per insubordinazione e minaccia grave.
Gli Ermellini, in primo luogo, hanno ritenuto condivisibile la sussunzione operata in sede di merito rispetto ai fatti contestati, rappresentati dall'aver avanzato gravi ed infondate accuse alla superiore gerarchica, con dichiarato intento ricattatorio e alla presenza di altre dipendenti.
La prestatrice, in particolare, aveva fotografato, con il proprio cellulare, alcuni capi di abbigliamento, acquistati altrove, di proprietà di una cliente che aveva chiesto il permesso di lasciarli in custodia nell’esercizio commerciale e aveva pronunciato, in presenza di altri dipendenti, le seguenti frasi “ce l’ho in pugno, ho fotografato dei capi da uomo e dico che lei li vende”; “queste fotografie sono la mia assicurazione”; “ho vinto, ho vinto”.
Ebbene, tali affermazioni, proferite dalla lavoratrice alla responsabile del punto vendita ed in presenza di colleghe, integravano gli estremi:
- della minaccia grave, da intendersi quale prospettazione di volere arrecare al superiore un danno ingiusto;
e
- della insubordinazione, che ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione ed il corretto svolgimento delle disposizioni.
Il tutto con violazione degli obblighi di collaborazione e fedeltà, nel quadro della organizzazione aziendale che, nel caso concreto, acconsentiva, come da prassi e nulla disponendo in contrario il relativo regolamento, alle richieste delle clienti che avessero eseguito spese significative di custodire in negozio i prodotti acquistati per poi ritirarli successivamente.
Il comportamento della lavoratrice - era stato rilevato - era di per sé di una gravità tale da giustificare il licenziamento disciplinare per giusta causa, soprattutto in considerazione delle modalità e delle finalità ricattatorie con cui le gravi ed infondate accuse erano state avanzate.
In definitiva, era legittimo il licenziamento per giusta causa della dipendente per gravi ed infondate accuse al superiore gerarchico, con dichiarato intento ricattatorio e alla presenza di altri dipendenti: le relative condotte erano sussumibili negli estremi della insubordinazione e della minaccia grave.
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