Il cambio del CCNL applicato al rapporto di lavoro rientra nella libera autonomia delle parti

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Il cambio del CCNL applicato al rapporto di lavoro rientra nella libera autonomia delle parti

Con l’ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148, la Corte di Cassazione ha affermato diversi condivisibili principi in tema di modifica del CCNL applicato al rapporto di lavoro tra cui la possibilità che la predetta modifica possa legittimamente rientrare nella libera ed autonoma determinazione delle parti, senza alcuna necessità che l’accordo venga raggiunto in sede protetta.

Come da consolidato orientamento giurisprudenziale, infatti, il contratto collettivo rappresenta una fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale, che opera dall’esterno e che non si incorpora - di per sé – nel contenuto degli accordi individuali sottoscritti con i singoli lavoratori, sicché risulta ammissibile che le parti raggiungano un accordo di modifica della fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale.

Il caso

A seguito della sentenza della Corte d’Appello di Roma, in riforma a quanto stabilito dal giudice di prime cure, che condannava il lavoratore alla restituzione delle differenze retributive lorde percepite in esecuzione della sentenza di primo grado in considerazione del rigetto della domanda di inefficacia o, comunque, illiceità del mutamento del contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro, il prestatore di lavoro ricorreva innanzi ai giudici di Piazza Cavour sulla base di tre motivi, deducendo:

  1. la violazione dell’art. 27, comma 4, del CCNL Radiotelevisioni private del 9 luglio 1994 e degli artt. 1362, 1363 e 2077 del Codice civile, per aver, la Corte d’Appello, ritenuta valida la variazione di inquadramento contrattuale frutto di un accordo negoziale intervenuto tra la stessa ricorrente ed il datore di lavoro. Secondo quanto sostenuto dal ricorrente, tale contratto precludeva, per i lavoratori in forza alla data di stipula dello stesso, l’applicazione di nuovi inquadramenti, sicché – in questa prospettiva – la predetta variazione costituiva una modifica peggiorativa del contratto individuale negoziata tra le parti in violazione dell’art. 2077, Codice Civile;
  2. la violazione degli artt. 2077, 2103 e 2113 Codice civile, censurando la sentenza impugnata per violazione del principio di irriducibilità della retribuzione e per non aver ritenuto applicabili, rispetto all’accordo contestato, le tutele dell’art. 2113, Codice Civile;
  3. la violazione dell’art. 2033, Codice Civile, e dell’art. 38, D.P.R. n. 602/1973, per aver la sentenza impugnata condannato il lavoratore alla restituzione delle somme corrisposte dal datore di lavoro in esecuzione della sentenza di primo grado al lordo delle trattenute fiscali e non al netto.

Le motivazioni della Corte

Accolto solo l’ultimo motivo del ricorso, la Corte di Cassazione, come già affermato – tra le altre – nelle precedenti sentenze n. 3982/2014 e n. 21234/2007, ribadisce che il contratto collettivo costituisce una fonte eteronoma di integrazione del contratto individuale e che, dunque, la sostituzione in via negoziale di una fonte collettiva ad un’altra si colloca al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2077, Codice Civile. Si rammenta, infatti, che il secondo comma del citato art. 2077, prevede che le clausole difformi dei contratti individuali, preesistenti o successivi al contratto collettivo, sono sostituite di diritto da quelle del contratto collettivo, salvo che contengano speciali condizioni più favorevoli ai prestatori di lavoro, talché, in virtù della relazione esterna tra contratto individuale e contratto collettivo, la sostituzione del CCNL applicabile non trova i limiti posti dal richiamato articolo.

Altresì, anche laddove il CCNL precedente contenga clausole volte a limitare la possibilità di pattuizioni individuali con le quali le parti intendano variare un determinato assetto contrattuale, queste non possono avere effetto diretto nel rapporto di lavoro, sicché – salvo i casi di specifica previsione di legge – non possono comunque interferire con la libera esplicazione dell’autonomia privata garantita dall’art. 1322, Codice Civile.

NOTA BENE: Se ne deduce, dunque, che la scelta e/o modifica delle regole applicabili al rapporto di lavoro rientra nella libera negoziabilità delle parti.

Negoziazione che, anche laddove peggiorativa, o presunta tale, non necessità nemmeno delle tutele dell’art. 2113, Codice Civile. L’opzione negoziale del lavoratore, che si esercita in favore di una determinata tipologia di CCNL, non è qualificabile come negozio abdicativo, non avendo attitudine ad incidere su pregresse e specifiche situazioni di vantaggio, già intestate al lavoratore, quali i diritti derivanti dal contratto collettivo sostituito per il tempo della sua vigenza.

Quanto, invece, alle asserite clausole peggiorative, gli Ermellini rammentano che nell’ipotesi di successione di contratti collettivi le modificazioni in peius per il lavoratore sono ammissibili con il solo limite dei diritti quesiti, dovendosi escludere che il lavoratore possa pretendere di mantenere come definitivamente acquisito al suo patrimonio un diritto derivante da una norma collettiva non più esistente e ciò in quanto – come detto precedentemente – le disposizioni dei contratti collettivi non si incorporano nel contenuto dei contratti individuali, ma operano dall’esterno come forma eteronoma di regolamento, concorrente con la fonte individuale, sicché le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole (art. 2077, Cod. Civile), che riguarda il rapporto tra contratto collettivo e contratto individuale.

Ciò assunto, anche nell’ipotesi di sostituzione, per modifica negoziale, di una fonte collettiva ad un’altra, il lavoratore non può far valere il principio di irriducibilità della retribuzione pretendendo il trattamento retributivo previsto dal precedente CCNL e dai successivi rinnovi succedutisi nel tempo, ma, al più, la cristallizzazione della retribuzione percepita all’atto della modifica contrattuale.

Sull’ultimo motivo del ricorso, l’unico accolto dai giudici di legittimità, viene ribadito – invece – che in caso di riforma, totale o parziale, della sentenza di condanna del datore di lavoro al pagamento di somme, in favore del lavoratore, il datore di lavoro ha diritto a ripetere quanto il lavoratore abbia effettivamente percepito e non può pertanto pretendere la restituzione di importi al lordo di ritenute fiscali mai entrate nella sfera patrimoniale del dipendente.

Riflessioni sulla modifica del CCNL

Tralasciando i casi in cui la modica del CCNL applicabile al rapporto di lavoro è – in qualche modo – disciplinata dalla legge (ipotesi di trasferimento d’azienda, procedure concorsuali o crisi d’azienda, cambio d’appalto, ecc.), la variazione del CCNL per ragioni riconducibili ad esigenze aziendali è un’operazione che merita indubbia attenzione.

Preliminarmente ad ogni valutazione è necessario prendere atto di alcuni dei seguenti vincoli operativi:

  • laddove il CCNL sia espressamente richiamato nel contratto di assunzione, talché risulta espressamente pattuita l’applicazione di una specifica contrattazione nazionale, le parti hanno, anche con il solo rimando rispetto a quanto pattuito nel contratto individuale, appositamente scelto una specifica applicazione di una data contrattazione collettiva nazionale. In tal caso, a parere di chi scrive, trova applicazione la disciplina generale dei rapporti tra contratto individuale e contratto collettivo (art. 2077), sicché eventuali modifiche unilaterali decise dal datore di lavoro ovvero concordate con le rappresentanze sindacali dei lavoratori, non possono incidere negativamente sul trattamento del lavoratore.

In tal senso, troverebbe piena applicazione il secondo comma dell’art. 2077 con la conseguenza che le singole previsioni contrattuali (monte ferie e permessi, maggiorazioni per lavoro straordinario, minimo tabellare, ecc.) del CCNL “formalmente” sostituito continuerebbero a trovare applicazione salvo che non intervenga un successivo accordo negoziale;

  • dovranno mantenersi i c.d. usi aziendali, rappresentati dai comportamenti messi in atto dal datore di lavoro volontariamente e con reiterazione nel tempo, riferibili alla generalità dei dipendenti o a gruppi omogenei di lavoratori;
  • dovranno mantenersi i c.d. diritti quesiti ovverosia quei diritti che sono già entrati nella sfera giuridica del soggetto. A titolo esemplificativo, rientreranno gli aumenti periodici di anzianità già maturati, le ferie maturate e non godute, le quote di mensilità aggiuntive maturate sotto la vigenza del precedente CCNL. Diversamente, il lavoratore non potrà aspirare a mantenere invariati – sulla base di una presunta aspettativa – i diritti non ancora maturati, vale a dire, ad esempio, il riconoscimento di determinate maggiorazioni per prestazioni di lavoro straordinario, notturno;
  • eventuale appartenenza del datore di lavoro ad una specifica associazione imprenditoriale sottoscrittrice di un determinato contratto collettivo. In tal caso, l’organizzazione sindacale opererà infatti quale mandante, con conseguente applicazione dell’art. 1704, Codice Civile, ed obbligherà il datore di lavoro mandatario all’applicazione del CCNL di categoria sottoscritto. In tal senso, un’errata gestione della modifica contrattuale consentirà ai lavoratori di rivendicare – presumibilmente – i trattamenti contemplati dalle singole clausole di miglior favore rinvenibili nel CCNL sottoscritto dall’organizzazione datoriale alla quale il datore di lavoro aveva conferito mandato.

Nel caso di datori di lavoro non iscritti ad alcuna associazione datoriale, ferma restando la possibilità di addivenire ad accordi di armonizzazione contrattuale, con le nuove parti sociali, volte ad esaminare e regolamentare la transizione o l’integrazione di specifiche difformità tra contratti collettivi, appare opportuno procedere ad una novazione del rapporto di lavoro da stipularsi con i singoli lavoratori interessati attraverso la formalizzazione di eventuali rinunce e/o modifiche del contratto collettivo precedentemente indicato nella lettera di assunzione e specificando chiaramente quali siano le modalità di raccordo.

Laddove, invece, il datore di lavoro abbia aderito ad una specifica organizzazione datoriale sarà necessario seguire una procedura avente inizio con la formale disdetta dell’iscrizione all’associazione datoriale e con la conseguente comunicazione di formale recesso nei confronti dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali. Il tutto da effettuare prima della scadenza del CCNL applicato. Il datore di lavoro, infatti, potrà cessare di applicare un dato contratto collettivo a favore di uno nuovo solo nel momento in cui il contratto collettivo precedente sia stato disdettato dall’associazione datoriale di riferimento ovvero sia giunto a scadenza naturale della parte economico-normativa. Nel caso in cui il contratto collettivo contenga una clausola di ultra-vigenza, non può certo affermarsi che il vincolo obbligatorio abbia le caratteristiche di perpetuità, sicché, nel caso in cui il contratto collettivo – ad esempio – contenga una clausola di validità “fino a sottoscrizione del nuovo CCNL”, venuta meno la vigenza di detto contratto secondo il periodo individuato dalla parti sociali, la disdetta dovrà considerarsi legittima, potendo intendersi applicabile il nuovo contratto collettivo.

QUADRO NORMATIVO

Corte di Cassazione – Ordinanza 21 ottobre 2022, n. 31148

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