Dipendente stressato dal capo? Va risarcito del danno da straining

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Dipendente stressato dal capo? Va risarcito del danno da straining

Lo straining costituisce una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle condotte.

Esso è comunque riconducibile all'art. 2087 c.c. e, laddove ne venga accertata l'integrazione, la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta.

Lo ha ricordato la Corte di cassazione nel testo dell'ordinanza n. 29101 del 19 ottobre 2023, pronunciata in accoglimento, con rinvio, del ricorso di un lavoratore cui la Corte d'appello aveva negato il risarcimento dei danni per le vessazioni subite da parte del superiore gerarchico.

Stress al lavoro: il dipendente può chiedere il risarcimento

La Corte territoriale, pur avendo accertato la dequalificazione commessa ai danni del dipendente, aveva escluso che si fosse configurata una condotta di mobbing, per mancata prova della reiterazione dei singoli fatti mobbizzanti (demansionamento, totale stato di inattività ed emarginazione, trasferimento persecutorio, pressioni per accettare la mobilità).

Nel corso dell'istruttoria, i giudici di secondo grado avevano accertato che il diretto superiore intratteneva rapporti stressogeni con tutti i dipendenti e, in modo particolare, con il ricorrente, nei cui confronti aveva messo in atto una stressante modalità di controllo.

Proprio il difficile rapporto tra i due aveva generato un'animata discussione, durante la quale il dipendente aveva avuto un attacco ischemico.

Episodio illecito isolato? Danno comunque configurabile

Pur appurando tali fatti, la Corte di gravame aveva comunque ritenuto che andasse negata la loro illiceità, trattandosi di un episodio isolato che esulava dalla sistematicità di una condotta vessatoria persecutoria o discriminatoria reiterata e protratta nel tempo.

A suo avviso, per poter qualificare come mobbizzante la condotta del datore o del superiore gerarchico era necessario che sussistesse una chiara finalità in tal senso.

La Corte territoriale, in definitiva, aveva negato qualsiasi tutela risarcitoria in relazione alla domanda svolta dal deducente.

Conclusioni, queste, non condivise dalla Suprema corte, secondo la quale i giudici di appello, a ben vedere, non avevano fatto buon governo delle regole di diritto alla base della tutela della personalità morale del lavoratore.

Gli Ermellini hanno richiamato, in proposito, quanto affermato dal risalente e ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Al di là della tassonomia e della qualificazione della condotta come mobbing e straining - si legge nella decisione - quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica).

In tale contesto, la reiterazione, l'intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere, eventualmente, sul quantum del risarcimento.

Tuttavia, è chiaro come nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso possa restare senza la minima reazione e protezione, rappresentata dal risarcimento del danno a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale.

Ambiente lavorativo stressogeno come fatto ingiusto

Come anche riconosciuto in una recente sentenza di Cassazione (n. 3692/2023), va dato valore dirimente, in materia, al rilievo dell'ambiente lavorativo stressogeno, quale fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, anche apparentemente lecite o solo episodiche.

La tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore, infatti, trova fonte direttamente nella lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2087 c.c.

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