Danno da straining, l’azienda deve risarcire

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Danno da straining, l’azienda deve risarcire

Con lordinanza n. 33428 dell’11 novembre 2022 la Corte di Cassazione interviene in tema di stress del lavoratore, addossandone il risarcimento in capo all’azienda.

Vediamo i termini della questione.

Il caso

Il caso prende le mosse da un ricorso proposto da un informatore scientifico contro una sentenza della Corte di appello di Genova che, riformando quanto disposto dal tribunale di La Spezia, aveva negato allo stesso il risarcimento danni per grave demansionamento (in particolare, il ricorrente aveva contestato lo svolgimento di promozione commerciale dei prodotti, accanto a quella di informazione scientifica) e mobbing.

La sentenza del tribunale

Il tribunale spezzino, infatti, accertato il grave demansionamento e il comportamento mobbizzante di cui era stato oggetto il lavoratore, aveva condannato l’azienda al risarcimento del danno biologico temporaneo e permanente, del danno alla dignità e all’immagine personale e professionale, nonché delle spese mediche sostenute in ragione degli eventi addotti.

La sentenza della Corte di appello

In riforma di quanto disposto dal giudice di primo grado, la Corte di appello ha rilevato che:

  • la contestazione delle mansioni, con riferimento anche a quanto stabilito dalla contrattazione collettiva, era avvenuta da parte del lavoratore dopo circa trenta anni di attività presso l’azienda, senza che l'interessato avesse mai mostrato nulla da eccepire;
  • tutti gli informatori scientifici in forza svolgevano attività di promozione commerciale, accanto a quella di divulgazione;
  • l’atteggiamento della nuova capo area, dichiarato mobbizzante dal lavoratore, non era tale da ledere la sua dignità personale, inserendosi in un normale contesto lavorativo percepito come vessante e denigrante dal soggetto per propria percezione personale distorta.

La decisione della Cassazione

Avverso la sentenza della Corte di appello, il ricorrente propone ricorso basato su due motivi:

  • violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 cod. civ. in relazione all’art. 2103 del medesimo codice e all’art. 122 del D.Lgs. n. 219/2006, per non avere la Corte valutato il divieto di comparaggio;
  • errata valutazione nel ritenere aderente alla professionalità del ricorrente il suo essere sottoposto alla direzione marketing.

In accoglimento delle ragioni del lavoratore, con l’Ordinanza in esame la Corte di cassazione dichiara fondati i motivi del ricorso per la mancata adozione, da parte dell’azienda, delle misure a tutela della salute psichica del lavoratore di cui all’art. 2087 cod.civ. in rapporto al diritto dello stesso a svolgere le mansioni corrispondenti all’inquadramento, sancito dall’art. 2103 dello stesso codice.

Lo stesso Inail, continua la suprema Corte, ha individuato con propria circolare tale fattispecie come malattie professionali non tabellate sotto la dizione “malattie psicosomatiche da disfunzione dell’organizzazione del lavoro”, con tutte le successive articolazioni che il mobbing può assumere e che sono state oggetto di analisi da parte della giurisprudenza e della normativa europea.

Lo straining, quindi, si configura alla luce di tutto ciò ogni volta che siano posti in essere comportamenti stressogeni nei confronti di un dipendente, anche se singoli o limitati nel numero, e l’azienda è comunque responsabile, anche solo per colpa, e tenuta al risarcimento per inadempimento dei propri doveri di tutela della salute psico fisica dei lavoratori.

Alla luce di questa valutazioni, quindi, la Cassazione cassa e rinvia in riesame nel merito la domanda risarcitoria del lavoratore.

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