Dimissioni per fatti concludenti se il lavoratore è assente ingiustificato
Pubblicato il 12 luglio 2022
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Ritenere che, in caso di inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già nei fatti intervenute, il datore di lavoro sia costretto a ricorrere al licenziamento per giusta causa per risolvere il rapporto di lavoro significa optare “per una soluzione esegetica” irragionevole e di dubbia compatibilità costituzionale. A questa conclusione è giunto il Tribunale di Udine con la sentenza n. 20, depositata il 27 maggio 2022.
La sentenza di merito torna su una questione di diritto alquanto spinosa: la configurabilità delle dimissioni tacite in caso di assenza prolungata ed ingiustificata dal posto di lavoro; assenza che oggi, nell'inerzia del dipendente, obbliga il datore di lavoro a disporre un oneroso licenziamento disciplinare con il conseguente diritto del lavoratore a percepire la NASpI (non fruibile in caso di dimissioni ordinarie).
Assenza ingiustificata del lavoratore e invito a dimettersi
Il caso oggetto di controversia riguarda una dipendente che svolgeva la propria attività lavorativa come aiuto cuoca presso una società specializzata nella gestione di mense e servizi di ristorazione presso enti pubblici e privati, inquadrata al 5° livello del CCNL Turismo Confcommercio Pubblici esercizi con orario part time al 50%.
La lavoratrice, dopo un periodo di ferie, si era assentata in via continuativa dal lavoro per un periodo di oltre 6 mesi durante il quale non aveva mai fornito alcuna giustificazione dell'assenza nè risposto alle contestazioni disciplinari e successivamente all'invito del datore di lavoro a comunicare le dimissioni secondo le modalità telematiche vigenti.
La società datrice di lavoro aveva infatti preso atto dell’assenza della sua dipendente e non gli aveva più corrisposto la retribuzione, invitandola a dimettersi in via definitiva.
La stessa lavoratrice peraltro, prima di andare in ferie, aveva manifestato anche alla propria responsabile il definitivo proposito di non rientrare più in servizio.
Dimissioni per fatti concludenti
Nella missiva di invito alle dimissioni, il datore di lavoro provvedeva anche ad allegare il modulo per la comunicazione delle dimissioni, facendo presente, che laddove la trasmissione non fosse avvenuta entro 7 giorni, la società datrice di lavoro avrebbe ritenuto comunque, ad ogni effetto, l'avvenuta risoluzione di fatto del rapporto di lavoro, provvedendo alle comunicazioni agli enti preposti.
Nell'inerzia della lavoratrice, il datore di lavoro aveva comunicato al Centro per l’impiego il modello Uni-Lav per lo scioglimento del rapporto di lavoro con la causale “dimissioni”.
Ricorso della lavoratrice avverso le dimissioni
La lavoratrice aveva presentato ricorso:
- per accertare e dichiarare la nullità e/o l’inefficacia e/o l’invalidità ovvero pronunciare l’annullamento delle dimissioni e/o del provvedimento di scioglimento del rapporto di lavoro;
- per accertare e dichiarare la permanenza e continuità del rapporto di lavoro, ordinando alla società datrice di lavoro la sua riammissione in servizio;
- per condannare il datore di lavoro al pagamento della retribuzione fino alla riammissione al lavoro oltre al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali, degli interessi legali e della rivalutazione monetaria su tutte le somme dovute.
La società datrice di lavoro si costituiva per il rigetto del ricorso eccependo che il rapporto di lavoro si era risolto per esclusiva volontà della ricorrente e, comunque, per fatti concludenti, stante la sua assenza prolungata e ingiustificata e il dichiarato intento della dipendente di provocare il recesso datoriale e di percepire la NASpI.
Valutazione del comportamento delle parti
Il Tribunale di Udine in funzione di Giudice del Lavoro ha rigettato il ricorso della lavoratrice sulla base delle seguenti motivazioni.
Innanzitutto appare chiara l'intenzione della dipendente di porre fine al rapporto di lavoro, intenzione palesata alla propria responsabile e dimostrata fattualmente con il mancato rientro a lavoro dopo le ferie. Pertanto, pur in difetto di una formalizzazione delle dimissioni, il Giudice del lavoro, facendo propri gli insegnamenti della Suprema Corte in tema di principio dell’affidamento e buona fede oggettiva, ravvisa nel comportamento concretamente tenuto dalle parti la sintomatica manifestazione di una reciproca e convergente volontà di non dare più seguito al contratto di lavoro, determinandone così la risoluzione per fatti concludenti.
Con riferimento poi alla possibilità di concepire una risoluzione per fatti concludenti nell’ambito del rapporto di lavoro, il Tribunale di Udine ricorda che “l’inerzia protratta nel tempo non è certo idonea, se isolatamente considerata, a manifestare una volontà abdicativa, dovendo tale inerzia inserirsi in un contesto idoneo ad ingenerare un valido affidamento” (Cass. civ. - Sez. L, Sentenza n. 6900/2016, Cass. civ. - Sez. L, Sentenza n. 8215/2019). E, nel caso oggetto di giudizio, sono molteplici gli elementi fattuali che dimostrano l’univoca sussistenza della volontà dismissiva in capo lavoratrice (mancato rientro dopo le ferie natalizie, manifestazione della volontà di non proseguire più il rapporto di lavoro senza fornire giustificazione dell'assenza e non rispondendo alle richieste di chiarimento ed ai solleciti del datore di lavoro).
Dimissione: legge delega e riforma del Jobs Act
Segue una importante riflessione sulla disciplina delle dimissioni a seguito della riforma del Jobs Act.
Ad avviso del Tribunale di Udine lo scioglimento del contratto di lavoro per mutuo dissenso è da considerarsi tutt’ora validamente sostenibile, nonostante la novella del 2015.
La disciplina delle dimissioni si fonda sugli artt. 2118 e 2119 c.c. che sanciscono la regola generale della libera recedibilità da parte del lavoratore, fatto salvo il periodo di preavviso.
Essendo rimasta immutata la facoltà di libero recesso, le dimissioni possono continuare a configurarsi valide, almeno in ipotesi specifiche, anche per effetto di presupposti diversi da quelli della avvenuta formalizzazione telematica prevista dal Jobs act.
L’art. 26 del D.Lgs. n. 151/2015, infatti, disciplina la sola eventualità in cui la volontà del lavoratore si concretizza in una manifestazione istantanea, per incardinare la stessa in un atto formale e prevenire abusi come le c.d. dimissioni in bianco.
Non rientra pertanto nell'ambito applicativo dell'art. 26 il diverso caso in cui la volontà risolutiva del lavoratore dipendente si sostanzi in un contegno protrattosi nel tempo e palesatosi in una serie di comportamenti - anche omissivi - idonei ad assicurare un’agevole verifica della sua genuinità.
A tale conclusione si giunge confortati dal supporto dei criteri direttivi della legge delega n. 183/2014, che, in un inciso, aveva richiesto “... modalità semplificate per garantire data certa nonché l'autenticità della manifestazione di volontà della lavoratrice o del lavoratore in relazione alle dimissioni o alla risoluzione consensuale del rapporto di lavoro, anche tenuto conto della necessità di assicurare la certezza della cessazione del rapporto nel caso di comportamento concludente in tal senso della lavoratrice o del lavoratore ...”. Inciso che è rimasto totalmente inattuato nel D.Lgs. n. 151/2015.
La mancata attuazione, con l’art. 26 del D.Lgs n. 151/2015, dell’inciso della legge delega, avverte il Tribunale di Udine, non può impedire all’interprete di tenere conto della reale volontà del legislatore delegante dando evidenza all’ipotesi di risoluzione tacita del rapporto lavorativo.
Opinare diversamente e ritenere che all'inerzia del lavoratore nel rassegnare formali dimissioni già fattualmente intervenute possa rispondersi solo con l’adozione di un licenziamento per giusta causa, significherebbe optare per una soluzione esegetica non solo irragionevole, dati i presupposti, ma anche di dubbia compatibilità costituzionale in relazione:
- all’art. 41 Cost., perché si imporrebbe al datore di lavoro di farsi carico dei rischi e dei costi (il c.d. ticket NASPI) del licenziamento disciplinare che il datore medesimo non avrebbe comunque inteso assumere;
- all’art. 38 Cost., perché la situazione darebbe luogo, a favore del licenziato, ad un esborso di provvidenze pubbliche per la tutela di un fittizio stato di disoccupazione.
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