Frode esclusa se stipendio versato in parte e debito in bilancio

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Frode esclusa se stipendio versato in parte e debito in bilancio

La Corte di cassazione ha accolto il ricorso di un imprenditore contro la condanna impartitagli in sede di gravame per il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti.

I giudici di appello avevano contestato all’imputato l’avvenuto pagamento, a due dipendenti, di somme inferiori a quelle indicate nelle rispettive buste paga.

Gli importi erano stati riportati per intero nel libro giornale della società e per tale circostanza era stato ritenuto che fosse integrata la fattispecie di cui all’art. 2 del Decreto legislativo n. 74/2000 oggetto di imputazione, ravvisandone i caratteri oggettivi e psicologici.

Le somme residue dovute e non corrisposte, tuttavia, erano state esposte nel bilancio societario alla voce “debiti verso dipendenti”.

La Corte d’appello aveva riconosciuto la consumazione del reato in ragione dell’obiettiva divergenza tra il dato passivo esposto e quello effettivo. Inoltre, era stato riconosciuto sussistere anche il dolo specifico sotteso alla norma, in considerazione della consapevolezza del ricorrente di inserire nelle dichiarazioni fatti parzialmente falsi e nella indicazione a bilancio delle somme non versate.

Cassazione: senza falsità in dichiarazione e dolo specifico la condanna va annullata

Una conclusione, questa, non condivisa dalla Suprema corte che, con sentenza n. 15241 del 15 maggio 2020, ha invece disposto l’annullamento, senza rinvio, della condanna impugnata “perché il fatto non sussiste”.

Gli Ermellini hanno ricordato che l’art. 2 del D.Lgs. n. 74/2000 sanziona chi, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi passivi fittizi.

Orbene, muovendo dalla lettera della norma, non risultava che, nel caso in esame, alcuna ipotetica falsità fosse stata inserita in una dichiarazione presentata o trasmessa, non emergendo affatto che la discrasia contabile pacificamente realizzata dal ricorrente fosse confluita in una delle dichiarazioni sopra menzionate.

Difatti, il contrasto emergeva tra quanto riportato dal libro giornale della società amministrata quale costo dedotto e quanto, invece, indicato al netto in busta paga, senza alcun riferimento alle dichiarazioni dei redditi o Iva.

In ogni caso, secondo la Corte di legittimità, la pacifica indicazione nel bilancio – sotto la voce “debiti verso dipendenti” – delle somme dovute ed indicate nelle buste paga, ma non effettivamente corrisposte, impediva di ritenere che l’imputato avesse tenuto un comportamento fraudolento o che si fosse avvalso di fatture o documenti per operazioni inesistenti o, ancora, che avesse impiegato altri artifici.

Nel caso in esame, infatti, l’imprenditore, nell’indisponibilità dell’intera somma da versare ai dipendenti, ne aveva pacificamente corrisposto una parte, indicandone la residua in bilancio e correttamente riportando l’intero importo nello stesso atto, secondo il criterio di competenza e non di cassa.

Queste considerazioni incidevano non solo sul profilo oggettivo della contestazione ma anche su quello psicologico, escludendo il dolo specifico richiesto dalla norma.

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