Demansionamento: la Cassazione sulla prova del danno
Pubblicato il 12 marzo 2024
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Se il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell'obbligo gravante sul datore di lavoro, è su quest'ultimo che incombe l'onere di provare l'esatto adempimento del suo obbligo.
L'adempimento, così, può essere dimostrato attraverso, alternativamente:
- la prova della mancanza in concreto del demansionamento;
- la prova che l'adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o a causa di un'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile al datore.
Risarcimento danno da demansionamento: prova anche per presunzioni
E' sulla scorta di tale principio che la Corte di cassazione ha giudicato fondato il ricorso di un lavoratore che si era visto respingere, dai giudici di appello, la domanda dallo stesso avanzata ai fini dell'accertamento di condotte demansionanti adottate, nei suoi confronti, dall'azienda datrice di lavoro.
La Corte d'appello, facendo appello al principio della ragione più liquida, aveva respinto la domanda del dipendente ritenendo carente, nel ricorso introduttivo del giudizio, l'allegazione di un danno in concreto sofferto dall'interessato.
Secondo i giudici di gravame, ossia, il danno patito non era stato adeguatamente allegato.
Diverse le conclusioni cui è giunta la Sezione lavoro della Cassazione, pronunciatasi sul ricorso del lavoratore con ordinanza n. 6275 del 8 marzo 2024.
Danno non in re ipsa ma dimostrabile per presunzioni
Gli Ermellini, sul punto, hanno ricordato che, pur essendo vero che il danno da demansionamento non è in re ipsa, tuttavia la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell'art. 2729 c.c., sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti.
A tal fine, possono essere valutati, quali elementi presuntivi:
- la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta;
- il tipo e la natura della professionalità coinvolta;
- la durata del demansionamento;
- la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione.
Nella vicenda esaminata la Corte di merito, pur richiamando i predetti principi in tema di risarcimento danni da demansionamento professionale, aveva tuttavia, in modo non condivisibile, ritenuto non allegato il danno patito.
L'organo giudicante, in altri termini, non aveva correttamente applicato, attraverso un prudente apprezzamento, il procedimento presuntivo per risalire al fatto ignoto (esistenza del danno) da quello noto (dimostrazione comunque di una dequalificazione accertata per le ragioni esplicitate nella gravata pronuncia).
Da valutare le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo
La stessa Corte non aveva nemmeno considerato che le circostanze poste a fondamento della pretesa, da cui poter desumere la perdita di alcuni tratti qualificanti la professionalità del lavoratore, erano ben evidenziate nel ricorso introduttivo.
A ben vedere, infatti, non aveva valutato, quali elementi presuntivi, la qualità e la quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata dell'adibizione alle mansioni inferiori, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo il corso di formazione ricevuto, i solleciti rivolti ai superiori per lo spostamento a mansioni più consone.
Tutte caratteristiche, queste, specifiche dell'attività svolta, per come allegate nel ricorso introduttivo del giudizio e suscettibili di valutazione ai fini dell'accertamento di un danno professionale, sia sotto il profilo di un eventuale deterioramento della capacità acquisita sia per quanto riguarda un eventuale mancato incremento del bagaglio professionale.
Andavano infatti riscontrati, nelle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo, quegli elementi presuntivi valutabili per l'accertamento di un eventuale danno.
In definitiva, nella decisione impugnata era stata effettuata un'erronea applicazione del principio della ragione più liquida, in quanto si sarebbe dovuto, preliminarmente, verificare la sussistenza del demansionamento prospettato dalla lavoratrice e, in caso di accertamento positivo, valutare la ricorrenza di un eventuale pregiudizio subito.
Da qui il richiamo al principio di diritto sopra enunciato, per come anche di recente riaffermato con ordinanza di Cassazione n. 48/2024.
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