L’ente cattolico non può licenziare il dipendente solo perché divorziato

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L’ente cattolico non può licenziare il dipendente solo perché divorziato

Il giudice nazionale che non si trovi nelle condizioni di interpretare il diritto nazionale vigente in modo conforme all’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, deve assicurare, nell’ambito delle sue competenze, la tutela giuridica spettante ai soggetti dell’ordinamento derivante dai principi generali del diritto dell’Unione - compreso, il principio di non discriminazione sulla base della religione o delle convinzioni personali - e a garantire la piena efficacia dei diritti che ne derivano, disapplicando, all’occorrenza, qualsiasi disposizione nazionale contraria.

Questione pregiudiziale: possibile diverso trattamento per dipendenti di differenti confessioni? 

Alla Corte di giustizia europea è stata sottoposta una questione pregiudiziale che verteva sull’interpretazione dell’articolo 4, paragrafo 2, della direttiva 2000/78/CE in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Questa domanda era stata presentata nell’ambito di una controversia tra un cittadino tedesco e il suo datore di lavoro, una società a responsabilità limitata il cui oggetto sociale consisteva nella realizzazione, tramite la gestione di ospedali, dei compiti della Caritas.

La causa concerneva la liceità del licenziamento irrogato al primo, giustificato da una presunta violazione dell’obbligo di buona fede e lealtà nei confronti dell’etica della società datrice.

Nella specie, il dipendente, medico di confessione cattolica che lavorava come primario nel reparto di medicina interna di uno di questi ospedale, era stato licenziato dopo essersi divorziato e poi risposato civilmente.

Il quesito proposto era quindi volto a precisare se, ai sensi della normativa europea, la Chiesa potesse imporre o meno ad un’organizzazione come quella in esame, ove si pretende da lavoratori con funzioni direttive di assumere un atteggiamento di lealtà e di correttezza, di trattare in maniera differente quelli appartenenti alla Chiesa stessa e quelli aderenti invece ad altra Chiesa ovvero aconfessionali.

Da qui la risposta dei giudici europei, resa con sentenza dell’11 settembre 2018 (causa C-68/17).

Corte Ue: solo se religione è requisito essenziale, verifica giurisdizionale

In questa, è stato precisato:

  • che “una chiesa o un’altra organizzazione la cui etica sia fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, e che gestisce una struttura ospedaliera costituita in forma di società di capitali di diritto privato, non può decidere di sottoporre i suoi dipendenti operanti a livello direttivo a obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di tale etica diversi in funzione della confessione o agnosticismo di tali dipendenti, senza che tale decisione possa, se del caso, essere oggetto di un controllo giurisdizionale effettivo al fine di assicurare che siano soddisfatti i criteri di cui all’articolo 4, paragrafo 2, di tale direttiva” (che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro);
  • che “una differenza di trattamento, in termini di obblighi di atteggiamento di buona fede e di lealtà nei confronti di detta etica, tra dipendenti in posizioni direttive, in funzione della loro confessione o agnosticismo, è conforme alla suddetta direttiva solo se, tenuto conto della natura delle attività professionali interessate o del contesto in cui sono esercitate, la religione o le convinzioni personali costituiscono un requisito professionale essenziale, legittimo e giustificato rispetto all’etica della chiesa o dell’organizzazione in questione e conforme al principio di proporzionalità, il che spetta al giudice nazionale verificare”.
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