CIG erronea? Differenze retributive e danno da demansionamento

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CIG erronea? Differenze retributive e danno da demansionamento

La prospettazione del danno derivante dal demansionamento, immanente nella condizione stessa di inerzia nella quale la lavoratrice sia stata illegittimamente collocata dalla parte datoriale, è suscettibile di ristoro per equivalente, alla stregua del criterio equitativo.

Così la Corte di cassazione, nel testo dell’ordinanza n. 20466 del 28 settembre 2020, in accoglimento del ricorso promosso da una lavoratrice avverso la decisione con cui i giudici di merito avevano rigettato la sua domanda di risarcimento dei danni da demansionamento.

Questo, nell’ambito di una causa attivata dalla dipendente per far valere la sua illegittima collocazione in CIG da parte della società datrice di lavoro che, per questo motivo, era stata condannata al pagamento delle somme corrispondenti alla differenza fra quanto spettante a titolo di retribuzioni per i periodi di sospensione, e quanto percepito nei medesimi periodi a titolo di indennità di cassa integrazione.

Mentre, in primo grado, il Tribunale aveva accertato il demansionamento patito dalla lavoratrice nei periodi di lavoro prestato allorché non si trovava collocata in Cassa integrazione, la Corte di gravame aveva ritenuto non fondata la domanda di risarcimento, condannando la prestatrice alla restituzione di quanto percepito in seguito alla esecuzione della sentenza emessa dai giudici di prime cure.

Risarcimento da demansionamento in via equitativa

La lavoratrice aveva quindi adito la Suprema corte, denunciando la violazione e falsa applicazione dell'art. 13 della Legge n. 300/1970 e dell'art. 2103 c.c..

Aveva fatto presente che a fondamento della pronuncia di illegittimità della collocazione in CIG era stata posto l’accertamento della circostanza che la deducente, nei periodi di rotazione, non aveva ricevuto l'assegnazione di alcuna mansione poiché le attività da lei in precedenza svolte erano state già redistribuite fra i colleghi. Tuttavia, tale medesimo fatto non era stato preso in considerazione quale prova della dequalificazione professionale subita.

A fronte di tali doglianze, gli Ermellini hanno ritenuto che la lavoratrice, per effetto della sospensione illegittima dal lavoro e dello stato di forzata inattività nel quale era stata mantenuta fra un periodo di sospensione e l'altro, fosse stata privata delle mansioni a lei ascritte, con evidente pregiudizio quanto alla posizione giuridica soggettiva, della normalità delle relazioni di cui era titolare nel contesto aziendale in cui operava.

Da qui l'accoglimento del motivo di ricorso, con rinvio della causa per un nuovo esame di merito.

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