Patto di prova nullo: licenziamento e tutela reintegratoria attenuata
Pubblicato il 02 settembre 2025
In questo articolo:
- Patto di prova nullo per indeterminatezza delle mansioni
- Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24201
- Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24202
- Applicabilità della tutela reintegratoria attenuata
- Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24201
- Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24202
- Conclusioni
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La Cassazione torna sulla nullità genetica del patto di prova e sulle conseguenze in ordine al regime di tutela applicabile in caso di recesso datoriale, alla luce delle recenti evoluzioni normative e giurisprudenziali.
In particolare, con le sentenze, Sez. lavoro, nn. 24201 e 24202 del 29 agosto 2025, la Suprema chiarisce i rapporti tra la disciplina del D.Lgs. n. 23/2015 (c.d. contratto a tutele crescenti) e i principi affermati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 128 del 2024, la quale ha inciso profondamente sull’interpretazione dell’art. 3, comma 2, dello stesso decreto.
Quali sono le conseguenze della nullità del patto di prova ovvero del patto di prova “difettato”, sin dall’origine, per mancanza della forma scritta, o per mancata indicazione delle mansioni o della durata?
Patto di prova nullo per indeterminatezza delle mansioni
Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24201
Fatti di causa e ricorso per Cassazione
La vicenda prende avvio dal ricorso proposto da una lavoratrice, inquadrata come Quadro presso una società per azioni, che aveva impugnato il patto di prova di 6 mesi stipulato contestualmente al contratto di lavoro (1° dicembre 2017).
A seguito del recesso datoriale, la dipendente aveva chiesto la nullità del patto di prova e la conseguente illegittimità del licenziamento, con domanda di reintegra e risarcimento del danno ex art. 3, co. 2, D.Lgs. n. 23/2015.
Il Tribunale di Venezia rigettava la domanda, ma la decisione veniva riformata dalla Corte d’Appello di Venezia, che accertava la nullità del patto, dichiarava illegittimo il licenziamento e condannava la società alla reintegrazione e al pagamento di un’indennità risarcitoria pari al massimale di dodici mensilità (€ 90.000,00).
La società proponeva ricorso per cassazione, articolato su due motivi:
- applicabilità della tutela reintegratoria attenuata (art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015) in luogo di quella esclusivamente indennitaria (art. 3, comma 1, D.Lgs. 23/2015), in caso di nullità genetica del patto di prova. in una fattispecie di contratto a tutele crescenti
- criteri di quantificazione del risarcimento e modalità di detrazione dell’aliunde perceptum.
Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24202
Fatti di causa e ricorso per Cassazione
La vicenda trae origine dal rapporto di lavoro tra una lavoratrice e la società datrice di lavoro, regolato da contratto individuale con inquadramento nella categoria di Quadro, stipulato l’11 dicembre 2017. Contestualmente al contratto, le parti avevano sottoscritto un patto di prova di 6 mesi.
Il datore di lavoro recedeva dal rapporto di lavoro, nel corso del periodo di prova.
La lavoratrice impugnava il licenziamento, contestando la nullità del patto di prova per indeterminatezza delle mansioni (“non descriveva, neppure in forma minimale, le mansioni oggetto della prova non essendo sufficiente il richiamo alla posizione di capo servizio”), e chiedeva la reintegrazione e il risarcimento del danno.
In primo grado, il Tribunale di Venezia aveva respinto integralmente la domanda proposta dalla lavoratrice. Diversamente, in sede di gravame, la Corte di Appello di Venezia aveva accolto l’impugnazione proposta dalla lavoratrice, riformando la decisione di primo grado. La Corte territoriale aveva ritenuto il patto di prova nullo per indeterminatezza delle mansioni, evidenziando l’assenza di una descrizione chiara e specifica dell’attività che la dipendente avrebbe dovuto svolgere durante il periodo di prova. Da ciò è derivata l’illegittimità del licenziamento, poiché fondato su un patto privo di validità giuridica.
In conseguenza di tale pronuncia, i giudici di secondo grado avevano disposto la reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e la regolarizzazione dei contributi previdenziali e assistenziali. Inoltre, avevano ritenuto necessario proseguire il giudizio in separata fase per la determinazione dell’indennità risarcitoria spettante, da calcolarsi tenendo conto anche dell’eventuale aliunde perceptum.
La società proponeva ricorso per cassazione, articolando cinque motivi, in particolare l’erronea applicazione del D.Lgs. 23/2015, art. 3, avendo la Corte territoriale riconosciuto la tutela reintegratoria invece di quella meramente indennitaria e la violazione dell’art. 3, co. 2, D.Lgs. 23/2015 e dell’art. 18 St. lav., per avere liquidato l’indennità oltre il limite massimo di 12 mensilità.
Applicabilità della tutela reintegratoria attenuata
Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24201
Con la sentenza Cass., sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24201, la Corte rigetta il ricorso datoriale, riaffermando alcuni principi fondamentali.
La nullità del patto di prova (ad esempio, per mancata specificazione delle mansioni) determina la conversione automatica dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio (art. 1419, comma 2, c.c.).
Ne consegue il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall'art. 1 della legge n. 604 del 1966. Il recesso per asserito mancato superamento della prova equivale ad un ordinario licenziamento, sottoposto alla disciplina limitativa dei licenziamenti.
Gli Ermellini richiamano la pronuncia della Corte Costituzionale n. 128/2024, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, D.Lgs. 23/2015 nella parte in cui non riconosceva la reintegrazione attenuata anche in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato su fatto insussistente.
Per la Cassazione, anche il recesso basato su un patto di prova nullo configura una chiara ipotesi di insussistenza del fatto materiale, giustificando l’applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 3, co. 2, D.lgs. 23/2015), in linea con l’orientamento costituzionale.
Cassazione, sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24202
Con la sentenza Cass., sez. lavoro, 29 agosto 2025, n. 24202, la Corte accerta la nullità del patto di prova era nullo per indeterminatezza, poiché privo di specificazione delle mansioni da svolgere (non è sufficiente il rinvio generico alla qualifica di “capo servizio”, né il richiamo alla declaratoria contrattuale, né l’allegazione di e-mail precontrattuali).
La nullità del patto determina la conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio (art. 1419, comma 2, c.c.), con conseguente inapplicabilità del regime di libera recedibilità.
Richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 128/2024, la Suprema Corte statuisce che il recesso per mancato superamento di un patto di prova nullo costituisce un licenziamento privo di giustificazione per insussistenza del fatto, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata (art. 3, co. 2, D.lgs. 23/2015).
Conclusioni
La Corte di Cassazione, con le sentenze, Sez. lavoro, nn. 24201 e 24202 del 29 agosto 2025, ribadisce come, in presenza di patto nullo, il licenziamento debba essere qualificato come privo di giustificazione, con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione attenuata e al risarcimento, tenendo conto, ai fini dell’indennità risarcitoria, dell’aliunde perceptum.
Questi sono i principi affermati dalle sentenze.
- Nullità del patto di prova: la mancanza di specificazione delle mansioni comporta la nullità parziale della clausola, senza estendersi all’intero contratto, che si considera a tempo indeterminato sin dall’inizio.
- Effetti sul licenziamento: Il licenziamento basato su un patto nullo costituisce licenziamento ingiustificato per insussistenza del fatto.
- Tutela applicabile: alla luce della sentenza Corte Cost. n. 128/2024, si applica la tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 3, comma 2, D.lgs. 23/2015.
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