Orario massimo di lavoro in caso di cumulo di part-time

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Orario massimo di lavoro in caso di cumulo di part-time

Premessa

Le esigenze di flessibilità sono alla base della tipizzazione di schemi contrattuali speciali rispetto al modello previsto dall’art. 2094 c.c. e definito dall’art. 1 del D.lgs. n. 81/15 come forma contrattuale comune. L’assetto negoziale si è arricchito anche di strumenti, come lo smart-working, che consentono una significativa fluidità, quanto a orari e luoghi di lavoro, della prestazione lavorativa e che affiancano il contratto part-time nell’obiettivo di conciliare vita e lavoro. Rispetto a quest’ultimo profilo va però osservato che l’orario part-time, in non poche occasioni, costituisce per il lavoratore una condizione di lavoro non completamente satisfattiva, perché, da un punto di vista retributivo, potrebbe non permettere a costui di soddisfare le proprie esigenze individuale e familiari. Sorge così l’interesse per il lavoratore di cercare un altro lavoro, se del caso, part-time da affiancare al primo contratto, in modo da alzare il livello retributivo complessivo. In tale evenienza si pone la questione di sapere se e quale siano i limiti oggettivi nonché di orario cui sarebbe sottoposto il secondo ovvero il terzo datore di lavoro.

Il dovere di fedeltà del lavoratore

L’art. 2015 c.c. stabilisce che “il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizi”.
La disposizione impone al lavoratore un dovere di fedeltà nei confronti del proprio datore, che si concretizza nel divieto di concorrenza e nell’obbligo di riservatezza, la cui violazione importa responsabilità disciplinare. Tale regole porta a ritenere che un lavoratore occupato con contratto part-time possa concludere un secondo contratto part-time o un altro diverso contratto con un diverso datore di lavoro nella misura in cui l’attività di quest’ultimo non violi il know-how del primo datore ovvero non sia concorrenziale con quella svolta da costui.

Il limite massimo dell’orario di lavoro

Per quanto riguarda invece il tema più delicato dell’individuazione della soglia massima dell’orario di lavoro il Ministero del Lavoro, con risposta a interpello prot. n. 25/I/0004581 del 10/10/2006, ha affermato che “nelle ipotesi di cumulo di più rapporti di lavoro a tempo parziale con più datori di lavoro, resta fermo l’obbligo del rispetto dei limiti di orario di lavoro e del diritto al riposo settimanale del lavoratore, come disciplinati dal D.lgs. n. 66/2003”.
Il Ministero non specifica però, a chiare lettere, se la sommatoria dei contratti part-time possa superare il limite delle 40 ore settimanali.
La lettura complessiva delle disposizioni del D.lgs. n. 66/03 sembra condurre all’ipotesi secondo cui il limite delle 40 ore settimanali non possa essere superato.

Il limite legale dell’orario di lavoro

A tale proposito, la chiave di volta del decreto in commento, ovvero l’art. 3, comma 1, stabilisce che “l’orario normale di lavoro è fissato in 40 ore settimanali”, mentre l’art. 4, comma 2, dello stesso decreto prevede che “la durata media dell’orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario”.
L’art. 5 dello stesso testo normativo prevede che “il ricorso a prestazioni di lavoro straordinario deve essere contenuto. Fermi restando i limiti di cui all’articolo 4, i contratti collettivi di lavoro regolamentano le eventuali modalità di esecuzione delle prestazioni di lavoro straordinario. In difetto di disciplina collettiva applicabile, il ricorso al lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra datore di lavoro e lavoratore per un periodo che non superi le duecentocinquanta ore annuali. […]”.
Ciò posto, va necessariamente rilevato che per la lettera delle disposizioni in questione è del tutto indifferente il numero dei datori di lavoro di uno stesso lavoratore. In altri termini, la legge non parla mai di limiti di orario in relazione ad un unico rapporto di lavoro, ma di orario di lavoro tout court.
Quanto alla ratio legis, i beni giuridici tutelati dal D.lgs. n. 66 cit. sono, inequivocabilmente, l’integrità fisio-psichica del lavoratore, nonché la sua vita di relazione. Il legislatore, in considerazione di ciò, ha stabilito che un lavoratore, in via ordinaria, non possa essere occupato per più di 40 ore settimanali, salvo il ricorso al lavoro straordinario, che in ogni caso deve essere disposto (ovviamente sempre entro i limiti fissati dalla legge e dal contratto collettivo di riferimento) sulla base di esigenze sopravvenute.
Tanto premesso, si ritiene che la tutela dei beni giuridici suindicati - visto il loro preminente rilievo costituzionale - non possa cambiare a seconda del numero dei datori di lavoro coinvolti dal lavoratore e neppure in base alla disponibilità al lavoro del singolo prestatore d’opera. Detto altrimenti, il perno su cui ruota tutta la disciplina dell’orario di lavoro è il lavoratore, non il datore.

Conclusioni

Dalla lettera e dalla ratio dell’art. 3 comma 1 del D.lgs. n. 66 cit. sembra dedursi che il limite legale massimo delle 40 ore settimanali non sia superabile dalla contrattazione collettiva, né tanto meno dalla contrattazione individuale. L’eventuale violazione di tale limite - in applicazione degli artt. 1418 e 1419 c.c. - comporterebbe quindi, sul piano del contratto individuale, la nullità della clausola relativa all’orario pattuito, per contrarietà della stessa alla norma imperativa di cui al primo comma dell’articolo in commento.
Pertanto da quanto sopra emerge che un singolo datore di lavoro non può stipulare un contratto di lavoro con un proprio dipendente per lo svolgimento, in via ordinaria, di una prestazione settimanale di durata superiore alle 40 ore. Corollario di tale regole è che tale risultato non sembra sia raggiungibile neppure in virtù del cumulo di più rapporti di lavoro. Con domanda provocatoria potrebbe dirsi altrimenti: perché ciò che è vietato ad un singolo datore di lavoro (ad esempio: stipulare un contratto di 48 ore settimanali) dovrebbe essere consentito ad una pluralità di datori “in concorso”?
D’altro canto se il D.lgs. n. 66 cit. fosse effettivamente “calibrato” su un unico datore di lavoro, tale prospettiva porterebbe a rendere superabili anche i limiti sull’orario massimo settimanale e sul risposo giornaliero di cui rispettivamente agli artt. 4 comma 2 e 9 comma 1 del medesimo decreto legislativo.
La conclusione sopra esposta pare predicabile anche in caso di part-time cumulato con contratto intermittente ovvero con le prestazioni occasionali ex art. 54 bis D.l. 50/2017, essendo paritariamente necessario attenersi a tutte le prescrizioni in materia di riposo giornaliero, di pause e di orario massimo settimanale.

L’onere di informativa del lavoratore

Resta da precisare infine che la circolare 8/2005 chiarisce che “poiché non esiste alcun divieto di essere titolari di più rapporti di lavoro non incompatibili, il lavoratore ha l’onere di comunicare ai datori di lavoro l’ammontare delle ore in cui può prestare la propria attività nel rispetto dei limiti indicati e fornire ogni altra informazione utile in tal senso”. In difetto di tale informativa, il secondo datore di lavoro rischia di incorrere della contestazione di illeciti amministrativi sul superamento dell’orario di lavoro, salvo pur sempre la facoltà di rivalsa sul lavoratore per omessa comunicazione.

Le considerazioni espresse sono frutto esclusivo dell’opinione degli autori e non impegnano l’amministrazione di appartenenza
Ogni riferimento a fatti e/o persone è puramente casuale

 

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