Responsabilità solidale tra coniugi per professione abusiva

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Responsabilità solidale tra coniugi per professione abusiva

Rischia una condanna al risarcimento del danno in via solidale, causato da irregolarità ed omissioni connesse all’adempimento dell’incarico affidato, la moglie che affianca a studio il marito professionista non iscritto all’albo professionale, se non prova la sua estraneità all’attività svolta dal consorte. Nessun rilievo assume l’eventuale sentenza penale di assoluzione dal reato di esercizio abusivo della professione.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che, con sentenza n. 11974 del 19 giugno 2020, ha rigettato il ricorso presentato dalla donna, confermando la sentenza 11 settembre 2015 n. 3539 emessa dalla Corte d’appello di Milano nei confronti della stessa cui era stato contestato, insieme al marito, di aver omesso di presentare la denuncia dei redditi, i bilanci societari per diverse annualità, i modelli 730 per i dipendenti e di non risultare iscritti all’albo professionale.

La Suprema Corte - dopo aver evidenziato, respingendo i primi due motivi del ricorso, che dalle risultanze istruttorie acquisite in secondo grado risultava il conferimento e l’espletamento dell’attività professionale nei confronti di entrambi i coniugi e che gli stessi avessero svolto un ruolo assolutamente identico nell’espletamento degli incarichi affidati, con oggettiva simmetria delle attività concretamente operate, mentre nessuna prova era stata fornita dalla donna in relazione alla propria indipendenza/autonomia o separazione dei ruoli rispetto all’attività svolta dal marito - respinge anche il terzo motivo del ricorso basato sull’assoluzione della donna in sede penale per mancato raggiungimento della prova che l’imputata svolgesse effettivamente attività libero-professionale autonoma in modo abusivo.

Processo penale e civile. Diverso standard della probabilità della prova

La suddetta conclusione raggiunta nel processo penale, in cui trova applicazione lo standard probatorio dell’oltre ragionevole dubbio non equivale, afferma la Corte, alla prova positiva della estraneità della ricorrente all’attività svolta dal consorte, poiché si limita a registrare la mancanza di una prova certa dell’espletamento di attività di consulenza da parte dell’imputata e della consapevolezza della predetta del carattere abusivo dell’attività professionale svolta dal consorte.

Pertanto, concludono i giudici, la pronuncia di assoluzione dal reato di esercizio abusivo della professione di cui agli artt. 81 e 348 c.p. non si pone in contrasto con la pronuncia resa in sede civile, in applicazione del diverso standard della probabilità della prova, sulla scorta di una autonoma valutazione di diverse prove testimoniali e documentali, nonché logico-inferenziali.

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