Discriminatorio non rinnovare il contratto a termine solo alla lavoratrice in gravidanza

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Discriminatorio non rinnovare il contratto a termine solo alla lavoratrice in gravidanza

Gravidanza, maternità e genitorialità: va sempre garantita la parità nei rapporti di lavoro. E' il principio ribadito dalla Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza n. 5476 del 26 febbraio 2021.

Proroga del contratto a termine non concessa a lavoratrice in gravidanza

Una lavoratrice aveva lavorato presso il datore di lavoro come vincitrice di borsa di studio, in virtù di conferimenti di incarichi individuali e con contratti a termine via via prorogati ma, senza ottenere, a differenza di altri colleghi, la proroga dell'ultimo contratto.

Inoltre, era stata dichiarata vincitrice per l'assunzione a tempo determinato per la durata di un anno, ma non era mai stata convocata per la sottoscrizione del contratto.

Aveva, quindi, adito il Tribunale chiedendo che fosse dichiarata la natura discriminatoria della mancata concessione della proroga del termine del contratto a tempo determinato concessa, in forza delle leggi finanziarie del 2004 e 2005, a tutti i suoi colleghi nella stessa situazione contrattuale e che fosse accertato il suo diritto all'assunzione per la durata di un anno.

Il Tribunale aveva respinto parzialmente le domande mentre la Corte d'appello aveva ritenuto infondate tutte le pretese.

Contro la sentenza di secondo grado la lavoratrice propone ricorso in Cassazione. Il datore di lavoro resiste in giudizio con controricorso.

Discriminazione collegata alla gravidanza e alla maternità

La lavoratrice censura la sentenza della Corte territoriale per non aver tenuto conto delle leggi finanziarie del 2004 e del 2005 che legittimavano il datore di lavoro a continuare ad avvalersi (con la proroga o con il rinnovo), del personale in servizio assunto con contratto a tempo determinato.

Con riferimento poi alla mancata prova della discriminazione, la ricorrente rileva la "pacifica" circostanza che tutti gli altri contratti stipulati dai colleghi nella sua medesima situazione contrattuale erano stati prorogati.

La Corte di Cassazione accoglie il ricorso della lavoratrice partendo da una osservazione di fondo: la questione sottoposta ai giudici di merito non è l'esistenza  di un diritto soggettivo al rinnovo di un contratto a termine in essere tra le parti, ma la sussistenza di una discriminazione causata dal suo stato di gravidanza.

Normativa e giurisprudenza UE

A tutela della gravidanza, della maternità e della genitorialità, l'UE ha predisposto un complesso corpus di legislazione primaria e derivata.

Il quadro delle tutele è piuttosto ampio e articolato, sviluppandosi sia a livello di legislazione (primaria e derivata) sia in ambito giurisprudenziale.

Si richiamano, nello specifico, l'art. 157 del TFUE che sancisce l'obbligo della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile; l'art. 33, paragrafo 2, della Carta dell'UE  e le direttive europee contro la discriminazione (sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di accesso ai beni e ai servizi, direttiva 2004/113/CE; sulla parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, direttiva 2006/54 /CE; la direttiva 92/85/CE concernente l'attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, la direttiva 2010/18/UE che attua l'accordo quadro riveduto in materia di congedo parentale).

Anche la CGUE ha contribuito allo sviluppo di questo settore del diritto, offrendo chiarimenti e  applicando i principi espressi nella legislazione, con numerose pronunce giurisprudenziali in tema di discriminazione diretta fondata sul sesso. E, infine, viene citata anche la Cedu, che ha dichiarato che l'uguaglianza di genere è uno dei principali obiettivi perseguiti dagli Stati del Consiglio d'Europa (Cedu, Konstantin Markin c. Russia [GC], n. 30078/06, 22 marzo 2012, punto 127).

Legislazione nazionale

In Italia il riferimento normativo da prendere in considerazione è il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna (D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198) nonchè il D.Lgs. 25 gennaio 2010, n. 5, che ha attuato la direttiva 2006/54/CE .

Quando è ravvisabile la discriminazione basata sul sesso

Statuiscono i giudici di legittimità che "il mancato rinnovo di un contratto a termine ad una lavoratrice che si trovava in stato di gravidanza ben può integrare una discriminazione basata sul sesso, atteso che a parità della situazione lavorativa della medesima rispetto ad altri lavoratori e delle esigenze di rinnovo da parte della p.a. anche con riguardo alla prestazione del contratto in scadenza della suddetta lavoratrice, esigenze manifestate attraverso il mantenimento in servizio degli altri lavoratori con contratti analoghi, ben può essere significativo del fatto che le sia stato riservato un trattamento meno favorevole in ragione del suo stato di gravidanza".

Sul punto il richiamo della Suprema Corte va alla sentenza della Corte di Giustizia CE del 4 ottobre 2001 - C-438/99  ove è stato precisato che : « [....], in determinate circostanze il mancato rinnovo di un contratto a tempo determinato può essere considerato alla stregua di un rifiuto di assunzione. Ora, secondo una giurisprudenza costante, un rifiuto d'assunzione per motivo di gravidanza di una lavoratrice pur giudicata idonea a svolgere l'attività di cui trattasi rappresenta una discriminazione diretta basata sul sesso in contrasto con gli artt. 2, n. 1, e 3, n. 1, della direttiva 76/207»

Per quanto poi concerne il rilievo della concreta dimostrazione della discriminazione, la Corte richiama il consolidato principio in base al quale, nei giudizi antidiscriminatori i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguono i canoni ordinari di cui all'art. 2729 cod. civ. bensì quelli speciali, che non stabiliscono  un'inversione dell'onere probatorio, ma solo un'agevolazione del regime probatorio in favore del ricorrente.

Pertanto, in tali casi, il lavoratore deve provare il fattore di rischio, e cioè il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio, ed il datore di lavoro (art. 19 della direttiva n. 2006/54/CE - che ha riprodotto il testo dell'art. 4 della direttiva 97/80/CE citata) "le circostanze inequivoche, idonee a escludere, per precisione, gravità e concordanza di significato, la natura discriminatoria della condotta, in quanto dimostrative di una scelta che sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione".

La Suprema Corte, in conclusione, accoglie il ricorso, cassando con rinvio alla Corte d'appello per un nuovo esame, da svolgersi in osservanza dei principi indicati.

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