Dichiarazioni mendaci del lavoratore: è sempre falsa testimonianza?
Pubblicato il 21 maggio 2015
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Con sentenza n. 16443 pubblicata il 20/04/2015, e reperibile in massima anche nelle rubrica “Edicola” del 22/04/2015, la Corte di Cassazione penale ha ritenuto responsabili di falsa testimonianza i lavoratori che, per timore di perdere il posto di lavoro, hanno reso testimonianza mendace e favorevole al proprio datore di lavoro, imputato del reato di occupazione di manodopera clandestina. A giudizio della Corte, il timore di perdere il posto non giustificherebbe l’applicazione della esimente di cui all’art. 384 c.p., atteso che tale timore non può presumersi in capo al lavoratore, ma deve esser provato in giudizio allegando circostanze specifiche e puntuali.
La sentenza merita di essere approfondita, anche per la possibilità che abbia delle ripercussioni in sede ispettiva, dal momento che l’acquisizione di prove da parte degli ispettori del lavoro è presidiata dalla norma penale e segnatamente dall’art. 4 comma 7 della L. n. 628/61, che punisce con “l’arresto fino a due mesi o con l’ammenda fino a lire un milione” (oggi €. 516,00) “coloro che, legalmente richiesti dall’Ispettorato di fornire notizie a norma del presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete”.
Quest’ultima norma, infatti, non prescrive che l’autore debba rivestire una determinata qualifica o abbia un particolare status, o che possieda un requisito necessario per la commissione dell’illecito, ma utilizza semplicemente il pronome “coloro” delineando, così, un reato comune che, pertanto, può essere commesso non solo dal datore di lavoro, ma anche dal lavoratore, ovvero da qualsivoglia soggetto al quale l’ispettore del lavoro rivolga la richiesta di informazioni, notizie o documenti. È necessario, a tal fine, che la richiesta sia formulata legalmente e cioè che attenga a scopi istituzionali e deve entrare, ai sensi dell’art. 1335 cod. civ., nella sfera di conoscibilità del destinatario, se del caso anche utilizzando lo strumento della raccomandata A.R.
Di primo acchito, viene pertanto spontaneo affermare che la norma debba essere applicata anche quando il lavoratore rende all’ispettore dichiarazioni testimoniali mendaci e fuorvianti e che, quindi, quest’ultimo sia tenuto a deferire alla Procura della Repubblica l’autore del fatto de quo.
Occorre, tuttavia, tenere presente che spesso il destinatario della richiesta formulata dall’ispettore si trova in stato di soggezione psicologica perché teme che a causa delle informazioni rese si determinino per sé o per altri conseguenze pregiudizievoli. Tale condizionamento è particolarmente avvertito quando l’interpellato è appunto il lavoratore, atteso che quest’ultimo potrebbe sottacere circostanze che provino inadempienze del proprio datore di lavoro e che, laddove rivelate, potrebbero esporlo ad atti ripercussivi, capaci di mettere a rischio la conservazione del posto di lavoro.
Tale motivazione, d’altronde, è alla base del DM del 04/11/1994 n. 757, che in materia di accesso gli atti ispettivi preclude l’ostensione delle dichiarazioni rese dai lavoratori in sede ispettiva, al fine di evitare che costoro siano esposti a potenziali azioni discriminatorie e pressioni indebite o ritorsioni da parte del datore di lavoro. La norma è stata recentemente valorizzata dal Consiglio di Stato, il quale ha affermato che, salve specifiche e motivate esigenze, le dichiarazioni istruttorie rilasciate agli organi di vigilanza dai lavoratori debbano essere sottratte all’accesso, perché l’interesse alla riservatezza del lavoratore, quale potenziale vittima di condotte ritorsive e discriminatorie, è prevalente rispetto al diritto di difesa di colui che pretende la visione degli atti (Consiglio di Stato , sez. VI, sentenza 24.02.2014 n. 863; Cons. di Stato, Sez. VI, 11 luglio 2013, n. 4035).
Il Ministero del Lavoro, con circolare prot. 19324 - n. 43/2013 e lettera circolare 37/008051 del 02/05/2014, ha recepito tale orientamento, con la conseguenza che gli uffici periferici, fino a diverso indirizzo, sono tenuti ad applicare la decisione dell’organo apicale.
L’orientamento da ultimo citato si basa su una presunzione di pericolo che, sebbene connaturata alla condizione di sottoprotezione sociale tipica del lavoratore subordinato, non è stata invece ritenuta di per sé probante dal recente arresto della Suprema Corte di Cassazione, sezione penale, sopra riportato (cfr. sentenza n. 16443, pubblicata il 20/04/2015).
Si tratta di una duale divaricazione interpretativa sulla portata del timore di pericolo che viene posto comunque alla base della scriminante di cui all’art. 384 c.p., che rende immune da responsabilità penale l’agente che abbia reso false dichiarazioni perché indotto (“costretto”) dalla “necessità” di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da “un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore”.
Se, come sembra, il concetto di libertà viene colto nella sua più lata interpretazione e includente pertanto ogni forma di manifestazione della libertà individuale, allora osserva la Suprema Corte (cfr. sentenza n. 16443 pubblicata il 20/04/2015), anche il lavoro, inteso come diritto ad una occupazione e come strumento di crescita della personalità individuale anche nei suoi aspetti di integrazione e interrelazione sociale, deve reputarsi astrattamente sussumibile nell’ambito di esplicazione della “libertà” personale di ciascun individuo. Con la conseguenza, conclude la Corte, che il diritto al lavoro e al mantenimento del posto di lavoro deve essere compreso nell’ampio perimetro del diritto di libertà individuale menzionata dall’art. 384 c.p..
Proprio tale assunto porta a ritenere di poter applicare l’esimente di cui all’art. 384 c.p. al lavoratore che, per timore di subire ritorsioni ad opera del proprio datore di lavoro, renda all’ispettore dichiarazioni devianti e non veritiere. Sennonché, secondo i Giudici di legittimità affinché tale fattispecie si concretizzi occorre che in sede istruttoria (per conseguenza, anche ispettiva) vengano raccolti elementi che dimostrino la concretezza e attualità dell’addotto temuto pericolo di perdere il posto di lavoro. Elementi indiziari potrebbero rinvenirsi nella regolarità o meno del rapporto di lavoro, nella durata limitata o illimitata dello stesso, nella complessiva situazione economica e familiare (persone a carico o non) del lavoratore, ovvero in ogni ulteriore dato concretamente utile per l’indicato giudizio valutativo. Proprio la mancanza di tali dati porta, invece, a escludere l’applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 c.p., con la conseguente responsabilità dell’autore delle dichiarazioni mendaci.
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