Corte Ue. La legge nazionale non può indurre il lavoratore a rifiutare il nuovo contratto di lavoro
Autore: Roberta Moscioni
Pubblicato il 12 marzo 2012
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“Se, nel caso in cui lo Stato decida di rinnovare l’assunzione di un agente precedentemente assunto per un periodo di sei anni con contratto a tempo determinato, l’obbligo di ricorrere a un contratto a tempo indeterminato previsto all’art. 13 della legge 26 luglio 2005 implichi necessariamente, in considerazione degli obiettivi della direttiva 28 giugno 1999, 1999/70/CE, che nel nuovo contratto vengano mantenute immutate le clausole principali dell’ultimo contratto concluso, in particolare quelle relative alla denominazione del posto e alla retribuzione”.
Così, la questione pregiudiziale della sentenza dell’8 marzo 2012, relativa alla causa C-251/11, della Corte di Giustizia Ue, chiamata a risolvere la controversia insorta tra un ricercatore e l’università di Bretagna. Nel passare il lavoratore dalla posizione di precariato a quella di dipendente a tempo indeterminato, l’Istituto aveva cambiato la qualifica e lo stipendio del lavoratore, pur facendogli conservare le precedenti funzioni.
La Corte di Giustizia europea, richiamando l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, siglato il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/Ce, sottolinea come uno Stato membro dell’Unione europea non può arrivare a pregiudicare lo scopo o l’effetto utile di un accordo quadro recepito in direttiva, adottando una legge che, a fronte di una direttiva e accordo quadro che abbiano come fine la tutela dei lavoratori in termini di stabilità del rapporto di lavoro, potrebbe dissuadere il lavoratore dal concludere il nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato che gli viene offerto in sostituzione di quello a tempo determinato.
Una tale legge, infatti, secondo la Corte, porterebbe a perdere il beneficio della stabilità dell’impiego inteso come un elemento portante della tutela dei lavoratori.
Pertanto, la libertà legislativa riconosciuta ai singoli Paesi non può essere incondizionata, ma trova un limite preciso nell’obbligo di non modificare il rapporto di lavoro in senso sfavorevole al lavoratore, soprattutto se quest’ultimo continua a svolgere le stesse funzioni. Un peggioramento retributivo e di qualifica, infatti, potrebbe spingere il lavoratore a rifiutare il nuovo contratto con evidente lesione della sua stessa tutela. Dunque, dato che la Corte riconosce che solo in certe circostanze i contratti a termine “sono idonei a rispondere alle esigenze sia dei datori di lavoro, sia degli imprenditori”, spetta al giudice nazionale valutare, alla luce dei CCNL, se le clausole del nuovo contratto sono tali da peggiorare le condizioni globali del rapporto di lavoro, ai sensi delle disposizioni comunitarie.
PRONTUARIO LAVORO
- Il Sole 24 Ore 11 marzo 2012 - Norme e Tributi, p. 20 - Il contratto trasformato non può essere peggiorativo - Maciocchi
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