Cessione d’azienda illegittima. Sulla cedente permane l’obbligazione retributiva
Pubblicato il 09 luglio 2019
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Con la sentenza n. 17785, depositata il 3 luglio 2019, la Corte di Cassazione si sofferma su un caso di cessione di ramo d’azienda che viene giudicata illegittima, in quanto il trasferimento d’azienda è stato riconosciuto privo dei presupposti di legittimità previsti dall’articolo 2112 del Codice civile.
La conclusione a cui giunge la Suprema Corte è che le retribuzioni che il lavoratore continua a percepire dall’impresa cessionaria, anche dopo la sentenza che ha accertato l’illegittimità del trasferimento d’azienda, non possono essere detratte dalla società cedente, sulla quale grava per intero l’obbligazione retributiva.
Il ricorso analizzato è quello di un ex dipendente di una società, che aveva ceduto un suo ramo d’azienda. Dopo l’emanazione della sentenza che dichiarava illegittima la cessione del ramo d’azienda e disponeva la riammissione in servizio del lavoratore presso l’impresa cedente, il lavoratore aveva offerto la propria prestazione lavorativa a quest’ultima società. La società cedente, però, aveva rifiutato di riceverne le prestazioni e, così, il dipendente aveva proposto ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere, comunque, le relative retribuzioni.
La messa a disposizione delle energie lavorative equivale alla effettiva utilizzazione dell’attività lavorativa
La Cassazione, nella sentenza in oggetto, rende una importante precisazione, asserendo che al dipendente compete la retribuzione non soltanto se la prestazione lavorativa sia stata effettivamente eseguita, ma anche se il soggetto cedente abbia rifiutato l’offerta del lavoratore al ripristino del rapporto.
Per gli Ermellini, infatti, nell’ambito di un trasferimento d’azienda illegittimo, in quanto privo dei presupposti previsti dall’art. 2112 C.c., il rifiuto dell’impresa cedente - a seguito dell’offerta da parte del lavoratore - di riceverne le prestazioni, rende la messa a disposizione delle energie lavorative equiparabile alla effettiva utilizzazione dell’attività lavorativa stessa. Pertanto, sull’impresa cedente grava comunque il dovere di adempiere all’obbligazione retributiva.
Secondo la sentenza n. 17785/2019, tale principio è coerente con il diritto generale delle obbligazioni, rientrando la prestazione inerente al rapporto di lavoro tra le obbligazioni che hanno ad oggetto prestazioni infungibili, per il cui adempimento è necessaria la collaborazione del creditore. Di conseguenza, la prestazione rifiutata dalla società cedente equivale alla prestazione effettivamente resa, mantenendo inalterato il diritto del lavoratore a ricevere la retribuzione.
Analogamente – secondo la Corte - non possono essere portate in detrazione le retribuzioni che il lavoratore abbia continuato a percepire dall’azienda cessionaria dopo la sentenza che ha accertato la nullità del trasferimento, trattandosi di due rapporti che rimangono perfettamente separati e distinti.
Di qui, l’accoglimento del ricorso del dipendente, dal momento che l’attività lavorativa resa a beneficio del cessionario equivale a quella che il dipendente, pure a fronte di un coesistente rapporto di lavoro principale, avrebbe potuto rendere a favore di qualsiasi soggetto terzo.
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