Cassa integrazione illegittima, risarcimento al lavoratore

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Cassa integrazione illegittima, risarcimento al lavoratore

Il credito vantato dal lavoratore a titolo di risarcimento del danno subito per effetto della illegittimità di messa in Cassa integrazione per vizi procedurali da parte di una società in amministrazione straordinaria deve essere ammesso al passivo in prededuzione. È quanto ha deciso la Corte di Cassazione con l'ordinanza, Sezione Prima Civile, n. 2289 depositata il 2 febbraio 2021.

Sospensione lavorativa illegittima, ammesso al passivo credito lavoratore

Una spa in amministrazione straordinaria impugna il decreto del tribunale che aveva ammesso al passivo in prededuzione il credito di 54.053,83 euro vantato dal lavoratore a titolo di risarcimento fondato sulla illegittimità della sospensione lavorativa connessa alla cassa integrazione disposta in violazione delle regole procedurali previste dal legislatore.

Oltre alla censurabilità del generico richiamo ad esigenze tecnico-organizzative ovvero ai criteri di rotazione, il tribunale contestava alla società che la messa in Cassa integrazione era avvenuta in violazione della procedura di consultazione sindacale non avendo la società inviato la comunicazione richiesta dall'art. 1 comma 7 della legge n.223 del 1991.

A parere della società, invece, il vizio di procedura era stata sanato grazie ad un successivo accordo con le rappresentanze sindacali.

Il quadro normativo

La Suprema Corte cita le norme di cui alla legge n. 223 del 1991 sulla procedura di accesso alla cassa integrazione straordinaria e in particolare sulla comunicazione preventiva alle organizzazioni sindacali di cui al comma 7 dell'articolo 1.

Tale diposizione, successivamente abrogata (dal 24 settembre 2015) dall'art. 46, comma 1, lett. m), d.lgs. 14 settembre 2015, n. 148, prevedeva che i criteri di individuazione dei lavoratori da sospendere nonché le modalità di rotazione dovessero formare oggetto delle comunicazioni e dell'esame congiunto previsti dall'articolo 5 della legge 20 maggio 1975, n. 164.

L'art. 5 citato, anch'esso abrogato dal d.lgs., n. 148/2015, prescriveva che nei casi di eventi oggettivamente non evitabili che rendessero non differibile la contrazione o la sospensione dell'attività produttiva, l'imprenditore fosse tenuto a comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, alle organizzazioni sindacali di categoria dei lavoratori più rappresentative operanti nella provincia, la durata prevedibile della contrazione o sospensione e il numero dei lavoratori interessati.

Cassa integrazione illegittima senza comunicazione al sindacato

I giudici della Cassazione, richiamando sul punto precedenti orientamenti (Cass. 26587/2011), ricordano che, in caso di ricorso alla CIGS, "Il provvedimento di sospensione dall'attività lavorativa è illegittimo qualora il datore di lavoro, sia che intenda adottare il meccanismo della rotazione sia nel caso contrario, ometta di comunicare alle organizzazioni sindacali, ai fini dell'esame congiunto, gli specifici criteri, eventualmente diversi dalla rotazione, di individuazione dei lavoratori che debbono essere sospesi, così da permettere la verifica della corrispondenza della scelta ai criteri stessi". Tale illegittimità, prosegue la Corte, "può essere fatta valere dai lavoratori interessati davanti al giudice ordinario, in via incidentale, per ottenere il pagamento della retribuzione piena e non integrata".

L'obbligo di comunicazione al sindacato (Cass. 6761/2020) tutela infatti prerogative sindacali e garanzie individuali assolvendo una duplice funzione "di porre le associazioni sindacali in condizioni di contrattare i criteri di scelta dei lavoratori da sospendere e di assicurare al lavoratore, potenzialmente interessato alla sospensione, la previa individuazione dei criteri di scelta e la verificabilità dell'esercizio del potere privato del datore di lavoro".

La mancata comunicazione dell'apertura della procedura di trattamento di integrazione salariale ai sindacati (o la sua estrema genericità) non può essere sanata da successivi accordi sindacali.

Alla luce delle argomentazione suesposte, la Corte di Cassazione ha rigettato  il ricorso e condannato la società ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

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