Rinunce in sede conciliativa solo in piena coscienza

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Rinunce in sede conciliativa solo in piena coscienza

La mera indicazione della data di inizio e di fine del rapporto di lavoro subordinato in un atto transattivo in sede protetta non costituisce una volontà abdicativa del prestatore di lavoro rispetto ad altri diritti vantanti su un periodo di lavoro in nero.

La pronuncia della Corte di Cassazione, pervenuta con l'ordinanza 18 gennaio 2021, n. 698, afferma che il lavoratore può legittimamente avanzare rivendicazioni economiche o previdenziali riferite all'arco temporale di un rapporto di lavoro non regolarizzato, ancorché siano intervenute ben due conciliazioni stragiudiziali.

In particolare, secondo le risultanze del giudice d'appello, la sottoscrizione della lavoratrice, in sede di tentativo di conciliazione, nella quale aveva affermato di aver svolto attività lavorativa in forma subordinata dal 22 luglio 1968, non implica la rinuncia ad ipotetici diritti riguardanti altri periodi non esplicitamente o implicitamente menzionati, talché non è configurabile una cosciente manifestazione della volontà abdicativa.

A sostegno della tesi del giudice di seconde cure, gli Ermellini confermano l'orientamento giurisprudenziale secondo cui i diritti enunciati e transatti in sede di tentativo di conciliazione stragiudiziale, della quale il prestatore deve avere piena coscienza, non escludono ulteriori pretese evincibili in sede giudiziaria.

Nel caso de quo, ancorché nei verbali fosse stata indicata la data di inizio e fine del rapporto di lavoro intercorso con la società, le predette risultanze non possono intendersi una confessione stragiudiziale in ordine all'effettiva durata del rapporto di lavoro.

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