Patto di prova ed espletamento di mansioni diverse. Quali tutele in caso di recesso illegittimo?

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Patto di prova ed espletamento di mansioni diverse. Quali tutele in caso di recesso illegittimo?

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza del 3 dicembre 2018, n. 31159, ha affermato che, in caso di patto di prova ed espletamento di mansioni diverse, una volta accertata l'illegittimità del recesso, non si applicano né la legge del 15 luglio 1966, n. 604, né l'art. 18 della legge del 20 maggio n. 1970, n. 300, ma si ha unicamente la prosecuzione - ove possibile - della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato ovvero il risarcimento del danno.

Alla luce di tale principio, nella fattispecie in esame, è stato stabilito che la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova, nel caso in cui il lavoratore abbia svolto mansioni diverse rispetto a quelle specificate nel patto di prova, non comporta che il rapporto di lavoro debba essere considerato come stabilmente costituito.

Analizziamo, dunque, il caso da cui ha avuto origine la vicenda processuale, la disciplina normativa del patto di prova e i principali orientamenti giurisprudenziali in materia.

La vicenda processuale

La Corte di Appello di Cagliari – sez. dist. di Sassari - con sentenza pubblicata in data 19 gennaio 2017, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato per mancato superamento della prova nei confronti di un lavoratore, con condanna della società alla reintegrazione nel posto di lavoro ed al pagamento dell’indennità risarcitoria ai sensi dell’art. 18 l. n. 300/1970, vigente all’epoca del recesso.

Analizzando le motivazioni di tale pronuncia, si nota che la Corte di Appello, interpretando il contratto individuale di lavoro – ove era contenuto il patto di prova – unitamente alla contrattazione collettiva di riferimento, ha ritenuto che l’esperimento avesse ad oggetto mansioni che non erano poi state oggetto della prova, in quanto il lavoratore era stato adibito a compiti diversi.

Di conseguenza, ha ritenuto che il patto di prova dovesse considerarsi violato per l’attribuzione di mansioni diverse da quelle che ne formano oggetto, per cui ha ritenuto instaurato fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non soggetto alla temporanea libera recedibilità delle parti e non giustificato il recesso intimato, con le conseguenze dettate dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

In ultimo grado di giudizio, la Suprema Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso per i motivi che saranno di seguito illustrati, ha ritenuto non corretta l’interpretazione normativa di cui sopra e ha rinviato la questione alla Corte di Appello di Cagliari.

L’interpretazione della Suprema Corte di Cassazione

Come anticipato, la Suprema Corte di Cassazione ha totalmente ribaltato l’impostazione della sentenza della Corte di Appello, sostentendo che, una volta accertata l’illegittimità del recesso – anche laddove sussistano i requisiti numerici – non si applicano la legge n. 604/66 o l’art. 18 della legge n. 300/70.

Pertanto, le forme di tutela spettanti al lavoratore consistono unicamente nella prosecuzione – ove possibile – della prova per il periodo di tempo mancante al termine prefissato oppure il risarcimento del danno, non comportando la dichiarazione di illegittimità del recesso nel periodo di prova che il rapporto di lavoro debba essere ormai considerato come stabilmente costituito.

Tale orientamento, peraltro, risulta essere quello maggioritario da parte della Corte di Cassazione (ex multis, si consultino le sentenze Cassazione, Sezione Lavoro, del 12 marzo 1999, n. 2228, Cassazione, Sezione Lavoro, del 18 novembre 1995, n. 11934).

Le conclusioni della richiamata giurisprudenza derivano, in particolare, dalla considerazione che, in costanza di un valido patto di prova, la mancata corretta esecuzione del medesimo, svolgendo i suoi effetti sul piano dell’inadempimento, non determina automaticamente la “conversione” in un rapporto a tempo indeterminato bensì, come ogni altro inadempimento, la richiesta del creditore di esecuzione del patto – ove possibile – ovvero di risarcimento del danno.

Ancora sul punto, l’adibizione a mansioni diverse da quelle previste dalla prova può costituire, unitamente ad altri elementi, il sintomo di una ragione della risoluzione estranea all’esperimento, ma in tal caso dovrà essere il lavoratore ad allegare e provare il motivo illecito del recesso.

In definitiva, in considerazione delle motivazioni di diritto sopra illustrate, secondo la Suprema Corte di Cassazione, la Corte territoriale ha errato in diritto nel ritenere che l’espletamento di mansioni diverse in esecuzione del patto di prova abbia “instaurato fra le parti un rapporto di lavoro a tempo indeterminato non soggetto alla temporanea libera recedibilità delle parti”, con conseguente applicabilità della tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 S.d.L.

NB! Come noto, la Corte di Cassazione svolge una funzione nomofilattica, al fine di assicurare la certezza nella interpretazione della legge, il che significa che non si esprime nel merito dei fatti di causa.

Per tale ragione, posto che la sentenza della Corte di Appello di Cagliari è stata cassata, spetterà al giudice di rinvio determinare le conseguenze della violazione del patto di prova da parte della società datrice di lavoro, in coerenza con i principi sopra descritti e tenendo conto di quanto devoluto in grado di appello.

La posizione della giurisprudenza

Guardando alla posizione della giurisprudenza, è interessante osservare quanto disposto non solo dalla Corte di Cassazione, ma anche dalla Corte Costituzionale, che più volte ha affrontato la tematica, allargando l’oggetto di indagine.

In dettaglio, in effetti, dall’esame della giurisprudenza costituzionale emerge che nel periodo di prova non vi può essere un mero regime di libera recedibilità dal rapporto essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgano speciali ragioni di tutela del lavoratore, come quando lo stesso appartiene a categorie protette, in caso di collocamento obbligatorio, o nelle ipotesi di donna in gravidanza o puerperio (si vedano in proposito, le sentenze della Corte costituzionale del 22 dicembre 1980, n. 189, oppure la sentenza del 27 novembre del 2000, n. 541).

Nell’ottica della giurisprudenza maggioritaria della Corte di Cassazione, invece, il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quel che accade nel licenziamento assoggettato alla legge n. 604 del 1966.

Tuttavia, è stato anche affermato che l’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto.

Pertanto, non è configurabile un esito negativo della prova ed un valido recesso qualora le modalità dell’esperimento non risultino adeguate ad accertare la capacità lavorativa del prestatore in prova (ex multis Cassazione, Sezione lavoro, del 30 luglio 2009, n. 17767).

La disciplina normativa del patto di prova

Al contratto di lavoro subordinato può essere apposta una clausola in cui le parti subordinano l’assunzione definitiva all’esito positivo di un periodo di prova, ai sensi dell’art. 2096 del Codice Civile.

La funzione del patto di prova è quella di verificare, nel reciproco interesse, l’utilità della prosecuzione del rapporto di lavoro.

In particolare, il datore di lavoro ha così modo di valutare la capacità professionale del lavoratore e la sua complessiva idoneità alle mansioni e al contesto aziendale.

Al contempo, il lavoratore può valutare la propria convenzienza alla effettiva instaurazione del rapporto di lavoro.

Per l’apposizione del patto di prova al contratto di lavoro, è prevista la forma scritta, che deve essere di data anteriore, o al massimo contestuale, alla costituzione del rapporto di lavoro, e deve essere sottoscritta da entrambe le parti.

La disciplina del patto di prova è contenuta nel contratto collettivo, che ne stabilisce la durata massima, non prorogabile (è, in genere, pari a sei mesi).

Durante il periodo di prova, il contratto di lavoro è pienamente operante con i relativi diritti ed obblighi delle parti; tuttavia, sia il lavoratore che il datore di lavoro possono recedere dal contratto senza preavviso e in assenza di giusta causa o giustificato motivo, salvo che sia stata stabilita una durata minima del periodo di prova.

Compiuto il periodo di prova, ove nessuna delle due parti receda, il rapporto diventa definitivo e il servizio prestato si computa nell’anzianità aziendale del prestatore di lavoro.

Viceversa, se il rapporto si interrompe durante o al termine del periodo di prova, al lavoratore spettano comunque il trattamento di fine rapporto e le ferie retribuite o la relativa indennità sostitutiva.

NB! Il patto di prova può essere apposto a qualsiasi contratto di lavoro subordinato, anche all’apprendistato, purchè la prova sia limitata a verificare l’astratta idoneità del lavoratore a ricevere la formazione prevista o, in caso di assunzione dei disabili, sia diretta a verificare unicamente la residua ed effettiva capacità lavorativa all’espletamento di mansioni compatibili con lo stato fisico e l’handicap del lavoratore invalido.

 

 

QUADRO NORMATIVO

Legge n. 604 del 15 luglio 1966

Legge n. 300 del 20 maggio n. 1970

Corte costituzionale - Sentenza n. 189 del 22 dicembre 1980

Corte di Cassazione - Sentenza n. 31159 del 3 dicembre 2018

 

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