Licenziamento per malattia, sì agli esoneri contributivi
Pubblicato il 26 febbraio 2015
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Chiunque sarebbe messo a dura prova: prima una grave infermità, poi il licenziamento. La vita di Michele negli ultimi anni è stata quasi insopportabile, eppure il nostro bravo tappezziere non si è perso d’animo. Ancora combatte contro la malattia, ma la patologia non ha travolto la serenità della sua famiglia, anzi, l’unità con moglie e figli sembra essersi addirittura irrobustita.
Qualche mese fa l’azienda “Poltrone Imbottite s.a.s.”, in cui ha lavorato per molti anni, ha deciso di licenziarlo per superamento del periodo di comporto, decidendo di privarsi, forse a malincuore, di tanta abilità per la lavorazione dei tessuti. Michele non ha combattuto: ha riconosciuto, pur senza condividerlo nell’intimo, il diritto della sua azienda di rimpiazzarlo.
Il cellulare di Michele squilla; è un suo ex-collega: “Forse c’è qualche margine… Cerca di tornare in forze, perché la segretaria mi ha detto che alla luce della nuova normativa potresti avere un diritto di precedenza (art. 4 commi 12, 13 e 15 della L. n. 92/12)… Ti hanno licenziato perché costavi troppo, infatti hanno assunto un altro per avere gli esoneri contributivi. Dammi retta!”.
Quella telefonata suona come un imperativo categorico; Michele non perde tempo: dalla finestra blocca il vicino di casa avvocato, chiede ai sindacati e con concitazione telefona all’ispettorato del lavoro. Le risposte, però, coincidono e c’è davvero poco da festeggiare: il diritto di precedenza spetta solo in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-01-2012, n. 1404; Cass. civ. Sez. lavoro, 20/05/2013, n. 12233). Michele è stato licenziato per superamento del periodo di comporto, quindi l’azienda può procedere a nuove assunzioni e ottenere gli esoneri contributivi.
Sembra assurdo, ma i volti abbattuti di moglie e figli vengono rinfrancati proprio dalle parole di Michele: “Di latino conosco solo il motto che ripeteva sempre mio zio prete: spes contra spem. Da bambino gli chiedevo spesso cosa significasse e lui, pazientemente, mi rispondeva che bisogna sperare anche nelle avversità!”.
I credenti la chiamano fede, gli psicologi resilienza; il risultato sostanzialmente non cambia.
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