Il mobbing trova sempre più spazio davanti al giudice
Autore: eDotto
Pubblicato il 06 ottobre 2008
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Di seguito alcune recenti sentenze che hanno occupato la Cassazione sul tema del mobbing.
Con la decisione n. 24293/08, la Suprema Corte ha chiarito come il trasferimento di un'impiegata di un'impresa di telefonia al call center costituisca una dequalificazione che lede l'immagine e la professionalità della lavoratrice. Sulla vessazione, la Corte si è invece pronunciata con sentenza n. 22858/08, spiegando come tale condotta, per essere qualificata come mobbing, non deve protrarsi per lungo tempo, essendo sufficienti anche sei mesi di angherie. Per la sezione lavoro (sentenza n. 4774/07), l'illecito del datore si traduce in una condotta protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente. Il datore, inoltre, risponde dei danni subiti dal dipendente, mobbizzato dai colleghi, se non ha vigilato e non si è attivato per far cessare gli abusi (sentenza n. 16148/07). Nella sentenza n. 33624/07 è, invece, specificato che il mobbing non è reato e la via penale può essere intrapresa solo con una denuncia per maltrattamenti. La Cassazione (sentenza n. 27469) ha comunque precisato, in sede penale, che gli atti vessatori possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali nell'ambiente di lavoro. Le tendenze emerse da tali decisioni, che modificano radicalmente l'impostazione iniziale, riguardano, in primo luogo, lo “slittamento” del mobbing da sindrome depressiva a mera lesione dei diritti del lavoratore: mentre prima era necessaria una diagnosi medica ora sembra possibile attivare una causa allegando solo la violazione dei propri diritti. In secondo luogo, il lavoratore deve provare un dolo diretto nei suoi confronti: sarà il datore a dover dimostrare una causa di giustificazione nei suoi atti? Altre tendenze riguardano la responsabilità del datore anche qualora non sia lui a “mobbizzare” e la riduzione del tempo necessario perché si possa parlare di mobbing. A livello comunitario, la lotta al mobbing non ha ancora trovato strumenti adeguati, né un'apposita disciplina. Per ora, il legislatore comunitario ha solo inquadrato il mobbing tra le malattie psichiche in generale (direttiva 89/391). La maggior parte degli Stati membri, nel frattempo, piuttosto che intervenire con una normativa ad hoc lascia alle autorità giudiziarie i requisiti per individuare le ipotesi di mobbing. A questa tendenza fanno eccezione solo Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo ed Irlanda.
Con la decisione n. 24293/08, la Suprema Corte ha chiarito come il trasferimento di un'impiegata di un'impresa di telefonia al call center costituisca una dequalificazione che lede l'immagine e la professionalità della lavoratrice. Sulla vessazione, la Corte si è invece pronunciata con sentenza n. 22858/08, spiegando come tale condotta, per essere qualificata come mobbing, non deve protrarsi per lungo tempo, essendo sufficienti anche sei mesi di angherie. Per la sezione lavoro (sentenza n. 4774/07), l'illecito del datore si traduce in una condotta protratta nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione finalizzata all'emarginazione del dipendente. Il datore, inoltre, risponde dei danni subiti dal dipendente, mobbizzato dai colleghi, se non ha vigilato e non si è attivato per far cessare gli abusi (sentenza n. 16148/07). Nella sentenza n. 33624/07 è, invece, specificato che il mobbing non è reato e la via penale può essere intrapresa solo con una denuncia per maltrattamenti. La Cassazione (sentenza n. 27469) ha comunque precisato, in sede penale, che gli atti vessatori possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali nell'ambiente di lavoro. Le tendenze emerse da tali decisioni, che modificano radicalmente l'impostazione iniziale, riguardano, in primo luogo, lo “slittamento” del mobbing da sindrome depressiva a mera lesione dei diritti del lavoratore: mentre prima era necessaria una diagnosi medica ora sembra possibile attivare una causa allegando solo la violazione dei propri diritti. In secondo luogo, il lavoratore deve provare un dolo diretto nei suoi confronti: sarà il datore a dover dimostrare una causa di giustificazione nei suoi atti? Altre tendenze riguardano la responsabilità del datore anche qualora non sia lui a “mobbizzare” e la riduzione del tempo necessario perché si possa parlare di mobbing. A livello comunitario, la lotta al mobbing non ha ancora trovato strumenti adeguati, né un'apposita disciplina. Per ora, il legislatore comunitario ha solo inquadrato il mobbing tra le malattie psichiche in generale (direttiva 89/391). La maggior parte degli Stati membri, nel frattempo, piuttosto che intervenire con una normativa ad hoc lascia alle autorità giudiziarie i requisiti per individuare le ipotesi di mobbing. A questa tendenza fanno eccezione solo Svezia, Francia, Belgio, Lussemburgo ed Irlanda.
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