Attività sospesa nel lockdown e retribuzione ai dipendenti
Pubblicato il 03 agosto 2021
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Quali sono gli effetti del lockdown pandemico sull’obbligazione retributiva del datore di lavoro che ha sospeso l’attività d’impresa in ossequio alle disposizioni di legge? Quando è configurabile l'impossibilità della prestazione lavorativa come causa di esclusione del debito retributivo verso il dipendente? Ed ancora, quale valenza probatoria è possibile riconoscere in un'aula giudiziaria ai post pubblicati sui social network?
La questione è stata affrontata dal Tribunale di Roma e decisa con sentenza n. 6569/2021 del 7 luglio 2021.
Lockdown e mancata prestazione del dipendente
Una impresa di ristorazione, attiva nel settore della somministrazione di alimenti (senza cucina) e di bevande, viene citata in giudizio dinanzi al Tribunale da un dipendente e condannata al pagamento di somme a titolo di retribuzioni, ratei di tredicesima oltre accessori e spese, maturate e non percepite dal 24 marzo 2020 a gennaio 2021, mesi durante i quali l'attività imprenditoriale era stata sospesa per via del lockdown disposto in via normativa.
Avverso il decreto ingiuntivo del Tribunale, l'impresa propone opposizione dichiarando, ai sensi degli artt. 1256 e 1463 c.c., non dovuto il credito retributivo ingiunto per impossibilità della prestazione lavorativa discendente dalle misure di contrasto alla pandemia da Covid-19.
Non solo. L'impresa deduce inoltre che il divieto legale di svolgere l'attività imprenditoriale è motivo di esclusione, per causa di forza maggiore, da qualsiasi responsabilità. E aggiunge infine, che il dipendente avrebbe svolto, in costanza del rapporto di lavoro, altra attività lavorativa e, comunque, si sarebbe rifiutato di prendere servizio a seguito di formale convocazione.
Resiste in giudizio il dipendente chiedendo l'’integrale conferma del decreto ingiuntivo.
Sospensione dell'attività imprenditoriale e impossibilità della prestazione lavorativa
Il Tribunale adito ritiene l’eccezione di estinzione dell’obbligazione retributiva per impossibilità della prestazione lavorativa infondata.
Per contenere la diffusione del contagio da COVID-19, il DPCM dell’11 marzo 2020 ha disposto la sospensione delle attività di ristorazione (fra cui bar, pub, ristoranti, gelaterie, pasticcerie) (art. 1, n. 2). La sospensione ha comportato l’impossibilità giuridica totale e temporanea, da parte dell’impresa datrice di lavoro, di svolgere la propria attività. Conseguentemente, nello stesso periodo, le prestazioni lavorative dei dipendenti sono configurabili come oggettivamente impossibili, in quanto la società non avrebbe potuto riceverle, poiché interdetta normativamente nella propria attività di impresa.
Le imprese di ristorazione durante il periodo di sospensione ex lege dell’attività d’impresa non erano obbligate alla controprestazione retributiva a loro carico e, rientrando il contratto di lavoro subordinato nei contratti a prestazioni corrispettive (art. 1463 c.c.), il lavoratore non potrebbe chiedere la controprestazione. Ma nel caso di specie la situazione è ben diversa. Qui infatti, rileva il giudice, l’impossibilità della prestazione non è sopravvenuta a rapporto di lavoro già in essere ma, al contrario, l’assunzione del dipendente si è concretizzata in base ad un accordo transattivo sottoscritto quando il blocco dell'attività era già esistente.
Pertanto, nel caso di specie, l’impossibilità alla prestazione difetta dell’ulteriore requisito della sopravvenienza. Il datore di lavoro sapeva al momento dell’assunzione di non poter ricevere la controprestazione lavorativa ma ha comunque ritenuto conveniente, per motivi attinenti il venir meno del contenzioso in essere, di firmare un accordo giudiziale in base al quale il ricorrente, pur momentaneamente impossibilitato alla prestazione per blocco attività, veniva comunque assunto, in tal modo coscientemente accollandosi la conseguente obbligazione retributiva.
Ripresa delle attività e rifiuto della prestazione lavorativa
Con il D.P.C.M. del 16 maggio 2020, dal mese di giugno 2020, è venuta meno la sospensione per legge dell’attività di impresa e con essa l’impossibilità normativa di svolgere l’attività commerciale esercitata.
Alla offerta del dipendente di riprendere l'attività lavorativa, la società datrice di lavoro non ha fornito alcuna prova né in ordine alla oggettiva impossibilità della prestazione lavorativa, né per quanto riguarda l’impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa in mansioni equivalenti, opponendo pertanto di fatto un ingiustificato rifiuto tacito alla ripresa della prestazione lavorativa.
Sul punto il Tribunale invoca un principio consolidato della giurisprudenza di legittimità in base al quale: “La sospensione unilaterale del rapporto da parte del datore di lavoro è giustificata, ed esonera il medesimo datore dall'obbligazione retributiva, soltanto quando non sia imputabile a fatto dello stesso, non sia prevedibile ed evitabile e non sia riferibile a carenze di programmazione o di organizzazione aziendale ovvero a contingenti difficoltà di mercato. La legittimità della sospensione va verificata in riferimento all'allegata situazione di temporanea impossibilità della prestazione lavorativa: solo ricorrendo il duplice profilo dell'impossibilità della prestazione lavorativa svolta dal lavoratore e dell'impossibilità di ogni altra prestazione lavorativa in mansioni equivalenti, è giustificato il rifiuto del datore di lavoro di riceverla.” (Cass. [ord], 27-05-2019 n. 14419; ex plurimis Cass. 15372 del 2004).
Altra attività retribuita svolta dal dipendente
Nessuno rilievo giudiziale infine può essere attribuito alla circostanza addotta dalla società datrice di lavoro che il dipendente avrebbe svolto, nello stesso periodo dello stesso anno, attività retribuita stagionale all'estero e provata con la produzione in giudizio di alcuni post estratti dal profilo Facebook dello stesso lavoratore.
Il giudice del merito ha infatti stabilito che da tali unici elementi non possano assolutamente ricavarsi che il dipendente, nel periodo incriminato, abbia effettivamente svolto attività lavorativa retribuita altrove.
I social network sono spesso utilizzati, soprattutto nel mondo lavorativo, per pubblicizzare la propria attività professionale, fornendo un’immagine della propria persona e del proprio successo lavorativo spesso non corrispondenti al vero, proprio al fine di procurarsi delle occasioni di lavoro. Pertanto, ammette il Tribunale, dai suddetti elementi non può ricavarsi lo svolgimento di attività lavorativa retribuita all'estero nel brevissimo arco temporale indicato nei post e idoneo a far presumere, semmai, che il dipendente fosse all'estero per vacanza.
Rifiuto della prestazione lavorativa
Infine, rispetto al rilievo che il dipendente si sarebbe rifiutato di prestare servizio pur dopo essere stato convocato al lavoro (da settembre 2020), il giudicante osserva come il lavoratore opposto non possa assolutamente dirsi inadempiente, dal momento che, in base ai documenti prodotti dalla stessa società, non risulta affatto provato che il destinatario ebbe legale conoscenza dell’atto con il quale gli si intimava di prendere servizio.
Per tali ragioni il Tribunale rigetta la domanda della società datrice di lavoro, condannandola al pagamento delle spese processuali.
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