Assenze ingiustificate tra contestazioni disciplinari e dimissioni di fatto

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Dimissioni di fatto o licenziamento disciplinare: è questo il dilemma. Certo è che l’art. 19, legge 13 dicembre 2024, n. 203, non brilla per chiarezza sulla facoltativa possibilità del datore di lavoro di imputare la risoluzione del rapporto alla volontà del lavoratore al verificarsi dell’assenza ingiustificata.

La circolare ministeriale n. 6 del 27 marzo 2025, pur trattandosi di un mero indirizzo amministrativo, pare aver sollevato ulteriori dubbi sulla questione, ponendosi, a volte, in contrasto con il tenore letterale della norma stessa.

Probabilmente il bramoso obiettivo di riequilibrare la posizione dei contraenti nel rapporto di lavoro subordinato, arginando il fenomeno delle mancate dimissioni volontarie, con conseguente recesso disciplinare ed accesso alla NASpI, ha lasciato un po' di amarezza, seppur rimanga perseguibile, giacché onerosa, la conosciuta strada del procedimento disciplinare di cui all’art. 7, legge 20 maggio 1970, n. 300. In quali casi sarà davvero possibile avvalersi delle dimissioni per fatti concludenti previste dal nuovo comma 7-bis, art. 26, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151?

Le dimissioni di fatto (ministeriali) vs licenziamento disciplinare

Come noto l’art. 19, legge 13 dicembre 2024, n. 203 (c.d. Collegato Lavoro), ha aggiunto il nuovo comma 7-bis all’art. 26, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, prevedendo che, in caso di assenza ingiustificata del lavoratore protratta oltre il termine previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro applicato al rapporto di lavoro o, in mancanza, di previsione contrattuale, superiore a quindici giorni, il datore di lavoro ne dà comunicazione alla sede territoriale dell’Ispettorato nazionale del lavoro che può verificarne la veridicità della comunicazione medesima. Il rapporto di lavoro si intende risolto per volontà del lavoratore e non si applica la disciplina prevista dal presente articolo. Le disposizioni del secondo periodo non si applicano se il lavoratore dimostra l'impossibilità, per causa di forza maggiore o per fatto imputabile al datore di lavoro, di comunicare i motivi che giustificano la sua assenza”.  

Viene, dunque, introdotta nel nostro ordinamento la possibilità che il rapporto di lavoro si concluda per effetto di dimissioni c.d. implicite, date e sostenute dal comportamento tenuto dal lavoratore in un dato arco temporale, la cui individuazione parrebbe indiscutibilmente ed esclusivamente delegata alla contrattazione nazionale (anche priva di rappresentatività) e, solo in caso di mancata previsione, vigerebbe il termine previsto dalla norma pari a oltre quindici giorni.

Quanto alle locuzioni "assenza ingiustificata" e "superiore a quindici giorni", la circolare ministeriale 27 marzo 2025, n. 6, sembra sgomberare il campo rispetto a possibili diverse (ed a volte condivisibili) argomentazioni, sostenendo che il periodo utile ad evocare le dimissioni per fatti concludenti debba, di norma, intendersi in giornate di calendario, salvo diversamente disposto dalla contrattazione collettiva. Specificatamente, dunque, in mancanza di specifica previsione da parte della negoziazione di derivazione collettiva applicata al rapporto di lavoro, a decorrere dal sedicesimo giorno di assenza il datore di lavoro può decidere di prenderne atto, valorizzando la presunta volontà dismissiva del rapporto da parte del lavoratore e facendone derivare la conseguenza prevista dalla norma.

Secondo il Ministero, infatti, l’effetto risolutivo del rapporto non discende automaticamente dall’assenza ingiustificata, sicché esso è perseguibile allorquando il datore di lavoro decida di darne specifica comunicazione all’Ispettorato territorialmente competente, anche in un tempo successivo all’ipotetica configurazione della fattispecie incriminatrice.

Attenzione
Sebbene il Ministero del Lavoro abbia specificato che il periodo di assenza ingiustificata debba essere conteggiato, generalmente, come giorni calendario, si rileva che, secondo parte della dottrina, l’interpretazione proposta non risulta perfettamente aderente al tenore letterale della norma, che parrebbe legare il concetto di assenza ingiustificata alla legittima aspettativa del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa. Secondo tale tesi, sebbene il periodo temporale utile al recesso per fatti concludenti, laddove considerato in giornate lavorabili, possa inevitabilmente protrarre la sussistenza del rapporto di lavoro, una differente interpretazione rischierebbe di discriminare indirettamente i lavoratori assunti con particolari tipologie contrattuali (es. part-time verticali). Ed invero, ponendo a titolo esemplificativo un lavoratore assunto con part-time verticale mensile, con prestazione lavorativa programmata di una giornata ogni quindici giorni di calendario, una sola assenza ingiustificata, stando all’interpretazione ministeriale, potrebbe essere idonea a considerare concluso il rapporto di lavoro per volontà del lavoratore.

 

Quanto alla delega legislativa alla contrattazione collettiva nazionale, il Ministero del Lavoro afferma che il periodo superiore a quindici giorni previsto dalla legge costituisce il termine legale minimo perché il datore di lavoro – a partire, quindi, dal sedicesimo giorno di assenza – possa darne specifica comunicazione all’Ispettorato territoriale del lavoro, e che l’autonomia contrattuale può derogare solo in melius le disposizioni di legge, sicché nel caso in cui venga previsto dal CCNL un termine inferiore, dovrà farsi riferimento al termine legale. Al riguardo non può non evidenziarsi che l’assunto ministeriale risulti in netto contrasto con il testo della norma, che invece individua proprio la contrattazione collettiva nazionale (delegittimando eventuali accordi di secondo livello) quale primario soggetto deputato all’individuazione del periodo utile alla maturazione del recesso di fatto del lavoratore. Ed invero, solo in mancanza, di previsione contrattuale, si applicherebbe il periodo superiore a quindici giorni.

Nota Bene
Si ritiene, al netto della disamina appena posta, che i contratti collettivi debbano prevedere disposizioni specifiche per l’applicazione della nuova modalità di risoluzione prevista dall’art. 26, comma 7-bis, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, non potendo ritenersi assimilabili o applicabili regolamentazioni antecedenti che sembravano legittimare (erroneamente), già prima del 12 gennaio 2025 (data di entrata in vigore della norma), la risoluzione automatica del rapporto di lavoro. A titolo esemplificativo, dunque, la disposizione prevista dal CCNL per il settore metalmeccanica artigianato, sin dall’accordo del 26 luglio 1968, secondo cui “Il lavoratore che entro tre giorni dal termine del periodo della malattia non si presenti al lavoro, sarà considerato dimissionario”, sebbene tempo per tempo confermata ad ogni rinnovo, non può essere presa in considerazione per la nuova fattispecie delle dimissioni per fatti concludenti. Si concordi, infine, sul fatto che eventuali periodi di assenza tipizzati dalle parti sociali all’interno delle disposizioni sul procedimento disciplinare non possono essere analogamente utilizzati per il recesso di fatto del rapporto di lavoro ai sensi del pluricitato comma 7-bis.

Il Ministero, infine, evidenzia – seppur possa apparire scontato – che, nel caso in cui i contratti collettivi prevedano, tra le fattispecie disciplinarmente rilevanti ai fini del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, periodi di assenza ingiustificata (normalmente inferiori al periodo di quindici giorni previsto dalla norma in commento), resterà possibile per il datore di lavoro avviare la procedura prevista dall’art. 7, legge 20 maggio 1970, n. 300, con la conseguente garanzia, per il lavoratore, di poter esercitare il c.d. diritto di difesa.

Procedimento, quello disciplinare, che stando alle indicazioni ministeriali, si presenta del tutto alternativo a quello previsto dall’art. 19. Specificatamente, nel silenzio della norma, il Ministero del lavoro ritiene che le previsioni contrattuali in materia di licenziamento disciplinare per fattispecie tipizzate di assenza ingiustificata e le nuove dimissioni per fatti concludenti debbano essere considerate un corpus unico.

A tirar le fila, in attesa dei primi orientamenti giurisprudenziali, innanzi all’assenza ingiustificata del lavoratore sarebbe, dunque, opportuno scegliere (alternativamente) il cammino da percorrere tra:

  1. rilevare il comportamento del lavoratore e attendere che possa configurarsi la fattispecie prevista dall’art. 26, comma 7-bis, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151, per poi avviarne la procedura presso l’INL. In tale ipotesi, all’eventuale rientro del lavoratore prima che siano trascorsi i quindici giorni di calendario, rimarrà possibile avviare un procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 7, legge 20 maggio 1970, n. 300, sul quale si ritiene, comunque, non possano esserci contestazioni di sorta circa la mancata tempestività dell’azione datoriale, atteso che vi è una norma che, in qualche modo, giustifica l’attesa posta in essere dal datore di lavoro;
  2. disattendere le nuove disposizioni del Collegato Lavoro, operando, nei termini previsti dallo Statuto dei Lavoratori e dal contratto collettivo applicato o applicabile al rapporto di lavoro, ad avviare un procedimento disciplinare e, dunque, notificando al lavoratore l’assenza rilevata, attendendo le eventuali giustificazioni, per poi procedere a valutarle ed a comminare il recesso per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, con evidente aggravio di oneri (sia in termini procedurali che economici) a carico del datore di lavoro.

La procedura amministrativa per le dimissioni di fatto

Al netto delle criticità evidenziate nel precedente paragrafo, decorsi i quindici giorni di calendario ovvero il diverso termine previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro che intende far valere la protratta assenza ingiustificata ai fini della risoluzione del rapporto per fatti concludenti deve comunicarlo alla sede territoriale dell’Ispettorato del lavoro, da individuare in base al luogo di svolgimento del rapporto di lavoro.

Nota Bene
Il Ministero del Lavoro ha espressamente specificato che la procedura telematica di cessazione a seguito di dimissioni per fatti concludenti, avviata dal datore di lavoro, viene resa inefficace nel caso in cui lo stesso riceva, successivamente, per il tramite del sistema informatico del Ministero, l’avvenuta presentazione delle dimissioni da parte del lavoratore. Sul punto si evidenza che anche le eventuali dimissioni per giusta causa “prevalgono” sulla procedura di cessazione per fatti concludenti avviata dal datore di lavoro, sicché in tale evenienza sarà dovuto – salvo contestazioni – il c.d. ticket di licenziamento.

 

Il datore di lavoro che comunichi all’indirizzo PEC della sede territoriale dell’Ispettorato la volontà di applicare la disciplina in trattazione, dovrà fornire – anche per il tramite del modulo allegato alla precedente nota INL n. 579/2025 – tutti i dati di contatto ed i recapiti forniti dal lavoratore, così da poter consentire all’Ente ricevente di poter verificare la veridicità di quanto addotto.

La circolare ministeriale 27 marzo 2025, n. 6, inoltre, introduce tra le righe un nuovo obbligo (non previsto dalla norma) che incombe sul datore di lavoro: la medesima comunicazione inviata all’Ispettorato territoriale dovrà essere trasmessa anche al lavoratore, al fine di garantire a quest’ultimo il diritto di difesa previsto dall’art. 24 della Carta Costituzionale.

Per quanto concerne, invece, la compilazione del modello UNILAV, la data di cessazione del rapporto di lavoro non potrà essere antecedente alla data di comunicazione dell’assenza del lavoratore all’Ispettorato del lavoro, fermo restando che – sostiene il Ministero – per il periodo di assenza ingiustificata del lavoratore non è dovuta né la retribuzione né i relativi obblighi contributivi.

Nota Bene
Dal punto di vista retributivo, nelle ipotesi di dimissioni per fatti concludenti, il datore di lavoro è legittimato a trattenere dalle competenze di fine rapporto spettanti al lavoratore l’indennità di mancato preavviso contrattualmente stabilita.

Si rammenta, infine, che la novella introdotta al comma 7-bis non è applicabile nei casi previsti dall’art. 55, T.U. maternità, che prevede la convalida obbligatoria della risoluzione consensuale del rapporto e delle dimissioni volontarie presentate dalla:

  • lavoratrice madre durante il periodo di gravidanza;
  • lavoratrice madre o dal padre lavoratore, durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento o, in caso di adozione internazionale, nei primi tre anni decorrenti dalle comunicazioni della proposta di incontro con il minore adottato ovvero della comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento.

QUADRO NORMATIVO

Legge 13 dicembre 2024, n. 203

Ministero del Lavoro – Circolare 27 marzo 2025, n. 6

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