Abuso di permessi sindacali: recesso sproporzionato ma no alla reintegra

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Abuso di permessi sindacali: recesso sproporzionato ma no alla reintegra

La Corte di cassazione si è pronunciata sulla vicenda di un lavoratore che era stato licenziato per abuso nella fruizione dei permessi sindacali.

Rispetto alla pronuncia di primo grado, con cui il Tribunale aveva dichiarato illegittimo il recesso intimato da parte datoriale ordinando la reintegra nel posto di lavoro, la Corte d'appello aveva ritenuto che il rapporto di lavoro andasse risolto, con effetto dalla data di licenziamento, con condanna della società datrice al pagamento di una indennità pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.

I giudici di secondo grado, in particolare, pur giudicando inattendibili i testimoni indicati dal lavoratore sulla presenza del medesimo a una riunione sindacale, avevano ritenuto che il licenziamento comminato fosse illegittimo perché sproporzionato ed avevano quindi applicato la tutela indennitaria.

Contestualmente, era stato anche avviato, su segnalazione della Corte territoriale, un procedimento penale per falsa testimonianza, procedimento che era stato definito con provvedimento di archiviazione.

Ricorso per revocazione, presupposti di ammissibilità

Il dipendente aveva successivamente proposto ricorso per revocazione, asserendo di essere venuto in possesso di un documento decisivo, formato nel corso delle indagini penali, che dimostrava la sua presenza alla riunione sindacale.

Si trattava di una relazione della polizia giudiziaria contenente un'analisi del traffico telefonico del lavoratore, basata sull'esame della cella telefonica agganciata in zona prossima al luogo della riunione.

Sulla base del predetto documento, il ricorrente aveva sostenuto che dovessero considerarsi insussistenti entrambi gli addebiti lui contestati, con conseguente applicazione della disciplina reintegratoria.

Il ricorso per revocazione era stato tuttavia giudicato inammissibile in quanto il documento prodotto risaliva ad epoca successiva alla sentenza revocanda, di tal ché, di fatto, non poteva dirsi che la parte si fosse trovata nell'impossibilità, per cause di forza maggiore, di produrlo nel giudizio originario. In ogni caso, era stato ritenuto che tale documento non fosse decisivo.

Da qui il ricorso del lavoratore davanti ai giudici di legittimità.

Il documento decisivo deve essere preesistente 

La Suprema corte, con ordinanza n. 40895 del 20 dicembre 2021, ha giudicato infondata l'impugnazione promossa dal dipendente: i giudici di secondo grado si erano attenuti al costante indirizzo di legittimità, secondo cui l'ipotesi di revocazione presuppone che il documento decisivo che non si è potuto produrre in giudizio a causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario, preesista alla decisione impugnata.

E così non era stato nel caso in esame, in quanto il documento di cui si trattava era stato formato, pacificamente, dopo la conclusione del giudizio d'appello sulla impugnativa del licenziamento medesimo.

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