Sussiste la società di fatto e non l’impresa familiare se il collaboratore familiare compartecipa alla gestione dell’attività
Pubblicato il 13 gennaio 2012
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L’impresa Alfa è iscritta al registro dell’imprese dal 2007 come ditta individuale non artigiana e Tizio risulta titolare firmatario della stessa. Caio, padre di Tizio, risulta denunciato come collaboratore familiare presso l’INAIL e l’INPS sin dalla data di costituzione dell’impresa. In tale qualità Caio ha apposto la propria firma su effetti cambiari rilasciati come pagamento per la fornitura di merci; ha assunto obbligazioni contrattuali per conto dell’impresa, ha concluso contratti di lavoro con i dipendenti, ha remunerato costoro attingendo le somme da un unico fondo e ha prestato fideiussioni in favore di Tizio per operazioni aziendali concluse direttamente da quest’ultimo. Nel mese di ottobre 2011 gli ispettori della DTL sottopongono ad accertamento la ditta Alfa. Nell’occasione delle verifiche gli ispettori constatano che i dipendenti reputavano Caio direttore dell’impresa giacché, seppur insieme a Tizio, impartiva direttive ovvero sovrintendeva alle lavorazioni tendenzialmente per tutto l'arco della settimana lavorativa. All’esito degli accertamenti gli ispettori redigono verbale con il quale riqualificano sia la posizione di Caio in termini di socio, sia e correlativamente, la natura della ditta come società di fatto. Contestualmente gli ispettori diffidano sia Tizio, sia Caio, sia la società ad effettuare ex novo, a decorrere dalla data di costituzione dell’impresa, tutti gli adempimenti lavoristici, previdenziali e fiscali conseguenti a tale riqualificazione, irrogando le sanzioni del caso. È corretto l'operato degli ispettori?
Aspetti preliminari
Nel “Caso Pratico” del 9 dicembre 2011 – “Collaboratori e coadiuvanti familiari:sì alla maxisanzione prima del collegato lavoro” - pubblicato su questo sito, sono stati illustrati i principali obblighi assicurativi e previdenziali che contrassegnano l’attività lavorativa del collaboratore nell’impresa familiare prevista dall’art. 230 bis c.c. e sono stati altresì evidenziati, anche sotto il profilo del diritto intertemporale, gli effetti conseguenti all’inadempimento di tali obblighi. Orbene, per affrontare il caso in esame, e che attiene principalmente all’individuazione del contenuto della prestazione del collaboratore familiare e dei limiti oltre i quali tale rapporto perde la sua connotazione tipica in favore di altro schema negoziale, è necessario compiere un passo indietro ed esaminare gli aspetti fondamentali dell’istituto introdotto dalla L. n. 576/1975.
Occorre premettere che l’impresa familiare è caratterizzata da una disciplina eterogenea, giacché i vari regimi, previdenziali, assicurativi e fiscali, spesso divergono tra loro e non sempre rispecchiano fedelmente i criteri che l’art. 230 bis c.c. pone per la qualificazione di tale fattispecie negoziale. Le ragioni di tale differenziazione vanno evidentemente ricercate nelle differenti finalità che ciascun ramo rispettivamente persegue, fermo restando che ove ci si appresti all’esame dell’istituto il principale punto di partenza non può che essere la norma civile di riferimento, ergo l’art. 230 bis. c.c., che individua infatti gli elementi costitutivi dell’impresa familiare.
In tale quadro si è consapevoli che l’istituto in commento implica, per la sua disciplina disorganica e anche lacunosa, una consistente e variegata casistica, che presenta interrogativi non sempre dipanabili con soluzioni univoche e certe, e che richiede a monte un’attività interpretativa sistematica che superi anche la lettera della legge o le disposizioni contenute nelle circolari emanate in materia. Trattasi come ben si comprende di un compito impegnativo, ma anche stimolante, che ci consentirà di tornare spesso sull’argomento. Per ora occorre soffermarci al tema oggetto della presente esposizione, che richiede un preliminare esame sulla natura dell’impresa familiare.
Sul punto deve rilevarsi che la prevalente dottrina e la pressoché unanime giurisprudenza sono ormai dell’avviso che tale impresa abbia carattere, non collettivo, bensì individuale, in virtù del rapporto associativo di lavoro a rilevanza interna che lega il familiare titolare dell’impresa con ciascuno degli altri familiari che collaborano con esso.
Il familiare-imprenditore pertanto è l’effettivo gestore dell'impresa, giacché assume in proprio i diritti e le obbligazioni nascenti dai rapporti con i terzi e risponde illimitatamente e solidalmente con i suoi beni personali delle obbligazioni contratte nel corso dell’espletamento dell’attività d’impresa. In tal senso la costituzione da parte dell'imprenditore individuale di un'impresa familiare non determina alcuna conseguenza sulla proprietà dell'azienda, che era e rimane di pertinenza di detto imprenditore. A quest’ultimo, e non ai familiari né disgiuntamente né congiuntamente, spetta la rappresentanza dell'impresa e l'adozione di ogni determinazione che attenga alla gestione ordinaria dell’impresa medesima.
Sul piano delle relazioni interne la norma regola il rapporto obbligatorio fra familiare imprenditore e i familiari prestatori di lavoro nell’ambito della famiglia. A tali collaboratori compete il diritto di credito al mantenimento (da intendersi non nel senso soltanto dei mezzi indispensabili per il sostentamento, ma di mezzi in grado di assicurare un'esistenza libera e dignitosa, con riferimento alle condizioni patrimoniali della famiglia) e, per la parte eccedente, il diritto agli utili o ai beni acquistati con essi e agli incrementi dell'azienda, anche in ordine all'avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.
Scopo dell'istituto è infatti quello di apprestare una tutela per i soggetti specificati nel terzo comma dell'art. 230 bis c.c. e che espletino la propria attività in maniera continuativa e non occasionale nell’azienda familiare. Anteriormente alla riforma del diritto di famiglia, infatti, i familiari che operavano in tale contesto non erano titolari di posizioni giuridicamente protette, poiché le prestazioni venivano rese gratuitamente in funzione del sostegno economico della comunità familiare.
L’impresa familiare si costituisce mediante manifestazione anche tacita di volontà, dalla quale comunque si possa desumere l'esistenza della fattispecie de qua. Sicché, non essendo necessaria la forma documentale, tale impresa può nascere anche per effetto dell’esercizio continuativo di un’attività economica da parte dei familiari individuati dall’art. 230 bis c.c.. Ciò non toglie, specie ai fini fiscali, che le parti possano documentare in un forma cartacea la costituzione e la disciplina dell’impresa familiare, ma in questo caso, come ha rilevato la giurisprudenza, si rende necessario “[…] verificare se le clausole di tale atto (pur compatibili con la configurabilità dell'impresa familiare) siano o no in contrasto con norme imperative del cit. art. 230 bis, con la conseguenza, nel primo caso, della loro nullità e della loro sostituzione da parte delle norme imperative che ne risultino violate”.
Ciò che assume valore dirimente sul piano costituivo è il carattere residuale dell’impresa familiare, nel senso che questa è configurabile solo laddove le parti abbiano dato vita a un rapporto di lavoro riconducibile ad una collaborazione coordinata e continuativa. Ciò si significa che la disciplina dell’impresa familiare non è applicabile qualora la prestazione del familiare venga resa in via subordinata ovvero mediante l’instaurazione di un rapporto di associazione in partecipazione o ancora societario.
La qualificazione del rapporto di lavoro del familiare nell’aggregato domestico sconta, da parte della giurisprudenza e delle circolari emanate in materia, l’utilizzo di criteri presuntivi (spesso applicati anche con finalità antielusiva), che da un lato portano a semplificare accertamenti non agevolmente decifrabili in punto di fatto, dall’altro rischiano tuttavia di tradire la vera natura del rapporto, in special modo laddove tali criteri vengano applicati in maniera antinomica.
Sicché, se il principio della domanda giurisdizionale ex art. 99 c.p.c. spiega il ricorso alla logica presuntiva, si ritiene che sia più fedele alla funzione assegnata all’organo ispettivo relegare impostazioni relativamente preconcette ad un piano ancillare e conferire preminenza ad uno schietto riscontro del dato fattuale, onde verificare le effettive modalità di nascita, di sviluppo ed eventualmente di estinzione del rapporto di lavoro.
Collaboratore familiare e socio: distinzioni
Orbene, nel caso di specie, benché resti difficile superare la soglia della descrittività, si tratta di verificare quando l’attività resa in via continuativa del figlio dell’imprenditore configuri un rapporto di collaborazione coordinata e quando invece ne travalichi i limiti al punto da integrare gli estremi del rapporto societario, rendendo con ciò applicabile la disciplina delle società di fatto, in luogo di quella residuale prevista dall’art. 230 bis c.c..
a) La collaborazione
Tratto caratteristico della collaborazione, così come disciplinata dall’art. 230 bis c.c. è lo svolgimento, da parte del familiare, di un’attività di lavoro continuativa e autonoma, funzionale alle finalità e alle necessità organizzative dell’impresa familiare. Ciò evidenzia che il collaboratore non è assoggettato al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’imprenditore familiare, giacché in presenza di tali indici la prestazione da costui resa sarebbe contrassegnata dal vincolo della subordinazione. Ma ciò significa pure che tale prestazione debba inserirsi sistematicamente nella dinamica produttiva dell’impresa o in maniera diretta (ad es. intrattenere rapporti con i fornitori, interloquire con i clienti o con le banche) o complementare, ma in quest’ultimo caso l’attività deve possedere sempre una certa rilevanza per l'economia aziendale (es. effettuare pagamenti o rispondere al telefono).
La prestazione, pertanto, deve porsi al di là dell'obbligo di contribuzione e di solidarietà familiare e riferirsi invece all'impresa come effetto di divisione e di ripartizione di compiti riguardanti, non il ménage della famiglia, ma più specificamente il processo produttivo dell’azienda. Ciò al fine che tale attività possa tradursi, in proporzione alla quantità e qualità di lavoro prestato dal collaboratore, in una quota di partecipazione agli utili e agli incrementi dell'azienda. A tal fine al collaboratore viene riconosciuto un “interno” potere deliberativo riguardante sia l’impiego degli utili e degli incrementi dell’impresa, sia la definizione degli indirizzi produttivi (es. decisione in ordine alla vendite promozionali o ai saldi delle merci) sia la gestione straordinaria dell’impresa (es. vendita di beni e locazioni ultranovennali, accordi di consorzio, patti di non concorrenza). Tuttavia l’esercizio di tali diritti rimane circoscritto ai rapporti “interni”, famiglia-imprenditore, poiché ogni decisione a rilevanza “esterna”, che attenga cioè ai rapporti di gestione intercorrenti tra impresa e soggetti terzi, è prerogativa esclusiva dell’imprenditore titolare. Quest’ultimo può anche agire in violazione delle delibere interne e assumere decisioni con esse del tutto contrastanti. Ma in tal caso egli risponderà, nei confronti del familiari, a titolo di inadempimento degli impegni assunti, con il conseguente obbligo di risarcimento dei danni provocati.
b) Il vincolo societario
Premesso quanto sopra, ne segue per contro che il rapporto del familiare non può essere definito di collaborazione nel momento in cui la prestazione resa da costui perda la sua connotazione a rilevanza interna per estrinsecarsi in atti di compartecipazione all’amministrazione, alla gestione e al finanziamento dell’azienda che creino nei soggetti terzi un affidamento; che comportino cioè la percezione di trovarsi non dinanzi a una ditta individuale, bensì di fronte a una società tout-court, il cui prestatore rivesta la qualità di socio. E ciò si verifica qualora lo pseudo-collaboratore concluda contratti di lavoro con dipendenti, effettui il pagamento delle relative retribuzioni attingendo le somme da un unico fondo e ingeneri in costoro la convinzione che egli sia l’amministratore dell’impresa. Ovvero quando lo pseudo-collaboratore tenga contatti con il professionista di fiducia dell’azienda per decidere della strategia aziendale, tratti con i fornitori o, ancora, assuma obbligazioni per conto dell’azienda, firmi assegni sul conto dell’impresa, presti, all'occorrenza, fideiussioni, onde garantire all'impresa i necessari finanziamenti da parte degli istituti di credito.
Tali indici denotano invero l’esistenza di un affectio societatis e, ove si protraggano per un considerevole lasso di tempo, portano a riqualificare tanto il rapporto del familiare, da collaborazione in rapporto societario, quanto, e per l’effetto, la natura dell’impresa, che da individuale muterà in società di fatto, con la conseguente applicazione del relativo regime giuridico (cfr. in questo sito il “Caso Pratico” del 29 settembre 2011 - “Società in nome collettivo: un caso di illecito, tanti soci amministratori tante sanzioni”). Di tale avviso è la giurisprudenza ormai dominante che, in tema di estensione fallimentare al familiare del titolare di ditta individuale, ha più volte statuito che “ai fini dell'estensione del fallimento del titolare dell'impresa familiare agli altri componenti della stessa è necessario il positivo accertamento dell'effettiva costituzione di una società di fatto, attraverso l'esame del comportamento assunto dai familiari nelle relazioni esterne all'impresa, al fine di valutare se vi sia stata la spendita del "nomen" della società o quanto meno l'esteriorizzazione del vincolo sociale, l'assunzione delle obbligazioni sociali ovvero un complessivo atteggiarsi idoneo ad ingenerare nei terzi un incolpevole affidamento in ordine all'esistenza di un vincolo societario, mentre non assume rilievo univoco né la qualificazione dei familiari come collaboratori dell'impresa familiare, né l'eventuale condivisione degli utili, trattandosi d'indicatori equivoci rispetto agli elementi indefettibili della figura societaria costituiti dal fondo comune e dalla "affectio societatis".
Sulla scorta di tali argomentazioni si può ora esaminare il caso concreto.
Il caso concreto
Dagli atti di indagine è infatti emerso che l’impresa Alfa era formalmente iscritta alla Camera di Commercio sin dal 2005 come ditta individuale, il cui titolare Tizio è risultato essere figlio di Caio, quest’ultimo iscritto all’INPS e all’INAIL sin dalla costituzione dell’impresa in qualità di collaboratore familiare. Sennonché dalle dichiarazioni acquisite nel corso dell’accertamento e dall’esame della documentazione aziendale è risultato che il dato formale non corrispondesse alla realtà sostanziale: Caio, sin dal sorgere dell’impresa, ha sempre svolto un’attività “esterna”, sostanzialmente parificabile a quella del figlio.
E infatti Caio ha apposto la propria firma su effetti cambiari rilasciati come pagamento per la fornitura di merci; ha assunto obbligazioni contrattuali per conto dell’impresa, ha concluso contratti di lavoro con i dipendenti, i quali lo reputavano il direttore dell’impresa. In tal senso dalle dichiarazioni acquisite è risultato che Caio impartiva direttive, cioè sovrintendeva alle attività dell’impresa tendenzialmente per tutto l'arco della settimana lavorativa e vigilava insieme al figlio Tizio sull'operato delle maestranze. Dall’esame degli atti è risultata l’esistenza di una scrittura aziendale per la suddivisione degli utili, in relazione alle rispettive quote di partecipazione aziendali e non già in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, come previsto nel caso d'impresa familiare. Sempre dalla documentazione bancaria è emerso che Caio ha prestato fideiussione in favore di Tizio per operazioni aziendali concluse da quest’ultimo.
Insomma, l’insieme di tali atti hanno evidenziato per sintomaticità e concludenza l'esistenza di un vincolo societario tra Tizio e Caio finalizzato al raggiungimento degli scopi sociali. In tal senso, pertanto, Caio ha svolto la propria prestazione con modalità corrispondenti a quelle caratterizzanti non tanto la collaborazione familiare, quanto la qualifica di socio. Appare quindi corretto l’operato degli ispettori, che hanno riqualificato la posizione lavorativa di Tizio e per l’effetto la natura dell’impresa Alfa in termini di società, diffidando quest’ultima ed entrambe le persone dei soci, giacché corresponsabili (cfr. in questo sito il “Caso Pratico” del 29 settembre 2011 - “Società in nome collettivo: un caso di illecito, tanti soci amministratori tante sanzioni”) ad effettuare ex novo, a decorrere dalla data di costituzione dell’impresa, tutti gli adempimenti lavoristici, previdenziali e fiscali, consequenziali a tale riqualificazione.
NOTE
i Basti notare che sul piano previdenziale il collaboratore e il coadiuvante delle imprese artigiane e commerciali sono iscrivibili solo qualora ricorrano i requisiti di cui all’art. 2 della L. n. 463/1959 e all’art. 1 della L. n. 613/1966. Per quanto attiene al profilo fiscale si rileva invece che l’art. 5 comma IV del D.P.R. n. 917/86 precisa che “i redditi delle imprese familiari di cui all'art. 230-bis del codice civile, limitatamente al 49 per cento dell'ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell'imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente la sua attività di lavoro nell'impresa, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. La presente disposizione si applica a condizione: a) che i familiari partecipanti all'impresa risultino nominativamente, con l'indicazione del rapporto di parentela o di affinità con l'imprenditore, da atto pubblico o da scrittura privata autenticata anteriore all'inizio del periodo d'imposta, recante la sottoscrizione dell'imprenditore e dei familiari partecipanti; b) che la dichiarazione dei redditi dell'imprenditore rechi l'indicazione delle quote di partecipazione agli utili spettanti ai familiari e l'attestazione che le quote stesse sono proporzionate alla qualità e quantità del lavoro effettivamente prestato nell'impresa, in modo continuativo e prevalente, nel periodo d'imposta; c) che ciascun familiare attesti, nella propria dichiarazione dei redditi, di aver prestato la sua attività di lavoro nell'impresa in modo continuativo e prevalente”.
Al riguardo si veda, anche, l'art. 2, D.Lgs. 1° aprile 1996, n. 239; gli artt. 7, 8 e 9, L. 27 dicembre 2002, n. 289; il comma 466 dell'art. 1, L. 23 dicembre 2005, n. 266; l'art. 1, D.P.C.M. 31 maggio 2007 e il comma 2 dell'art. 15, D.L. 2 luglio.
ii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 15/04/2004, n. 7223; Cass. civ. Sez. lavoro, 20/06/2003, n. 9897; Cass. sez. unite, 4 gennaio 1995, n. 89; ex multis cfr. Cass. sez. unite, 23 giugno 1993, n. 6951; Cass., 25 luglio 1992, n. 8959; Cass., 2 aprile 1992, n. 4030.
iii La giurisprudenza tuttavia tende ormai ad applicare la disciplina di cui all’art. 230 bis c.c. anche qualora il familiare svolga attività in favore del titolare d'impresa esercitata non in forma individuale, ma in società di persone con terzi, limitando tuttavia in tale ipotesi l’applicazione della disciplina di cui al citato art. 230-bis c.c. nei limiti della quota societaria. Testualmente la Suprema Corte ha osservato che “il coniuge che svolga attività di lavoro familiare in favore del titolare di impresa ha diritto alla tutela prevista dall'art. 230 bis c.c. (al pari degli altri soggetti indicati dal terzo comma di tale articolo), anche se l'impresa sia esercitata non in forma individuale ma in società di fatto con terzi, in tale ipotesi applicandosi la disciplina di cui al citato art. 230 bis c.c. nei limiti della quota societaria, atteso che la nozione di impresa familiare non comporta necessariamente l'esistenza di un soggetto imprenditoriale collettivo familiare, e che l'istituto ha natura residuale, venendo nel suo ambito regolati i diritti corrispondenti alle prestazioni svolte dal soggetto partecipante a favore del familiare che se ne avvale, anche quando questi utilizzi tale apporto per un'attività economicamente svolta quale socio di una società di fatto” (Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 23/09/2004, n. 19116; Cass. civ. Sez. lavoro, 19/10/2000, n. 13861. Cfr. Trib. Torino, 13/11/2008; contra Cass. civ. Sez. lavoro, 06/08/2003, n. 11881).
Si segnala sul punto che l’INAIL con nota n. 2653/10 ha aderito all’orientamento espresso dalla giurisprudenza sopra richiamata, rilevando che sono soggetti all'assicurazione obbligatoria anche i familiari coadiuvanti dei soci di S.n.c. e gli accomandanti di S.a.s. coadiuvanti familiari degli accomandatari, ove partecipino al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza e sempre che l'impresa sia organizzata e/o diretta prevalentemente con il lavoro dei soci e dei loro familiari.
iv Altro problema che merita uno specifico approfondimento è rappresentato dall’assoggettamento o meno del familiare non convivente alla disciplina di cui all’art. 230 bis c.c..
v Per familiari la legge intende il coniuge, parenti entro il terzo grado, e gli affini entro il secondo.
vi Cfr. Cass. Civ. 08/04/1981, n. 2012; Cass. Civ. 16/07/1981, n. 4651; Cass. Civ. 23/11/1984, n. 6069; Cass. Civ. 16/04/1992, n. 4650; Cass. Civ. 20/01/1993, n. 697.
vii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 16/04/1992, n. 4650.
viii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 07/03/1998, n. 2556; Cass. civ. Sez. lavoro, 14/06/1990, n. 5803; Cass. civ. Sez. lavoro, 09/02/1989, n. 818.
ix Cfr. Circolare INPS n. 179/89 ovvero Circolare del Ministero del Lavoro n. 38/10.
x Al riguardo, stando alla circolare n. 38/2010 del Ministero del Lavoro, ove venga accertato che presso una ditta individuale presti abitualmente attività lavorativa un familiare per il quale non sia stata effettuata la comunicazione preventiva all’INAIL, l’ispettore dovrebbe ricondurre presuntivamente il rapporto di lavoro nell’alveo della subordinazione e irrogare la maxisanzione e, se del caso, adottare anche il provvedimento di sospensione dell’attività. Si dia il caso che l’imprenditore regolarizzi la posizione del familiare come lavoratore subordinato e adempia alle diffide contenute nel verbale adottato dall’ispettore. Si dia ancora il caso che dopo un considerevole lasso di tempo la ditta venga sottoposta a un nuovo accertamento, ma questa volta da parte degli ispettori INPS. In tal caso viene da domandarsi come gli ispettori dell’INPS valutino il rapporto di lavoro del familiare, ricondotto, sulla base del verbale degli ispettori del lavoro nell’alveo della subordinazione. Ciò in quanto la circolare INPS n. 179/89 richiede nei rapporti familiare-imprenditore la subordinazione debba essere rigorosamente provata pena la riqualificazione del rapporto stesso in termini di collaborazione familiare...
xi Il problema di non facile soluzione che pongono tali rapporti di lavoro riguarda la necessità o la possibilità di distinguere quando l’ordine e il controllo siano esercitati come datore di lavoro o come padre, specie laddove il figlio sia inquadrato come dipendente.
xii Cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, 04/10/1995, n. 10412.
xiii Cfr. Cass. civ. Sez. I, 16/06/2010, n. 14580; ex multis Cass. civ. Sez. I, 24/03/2000, n. 3520; Cass. civ. Sez. I, 19/07/1996, n. 6505; cfr. Trib. Venezia, 17/02/2000; Trib. Roma, 05/07/1995; Trib. Torino, 25/03/1991; Trib. Perugia, 15/12/1982.
xiv Appare evidente che laddove Tizio avesse prestato la propria attività di lavoro in nero, ossia senza alcuna iscrizione, saremmo stati dinanzi ad un’ipotesi di socio occulto.
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